Pantelleria: l’isola dal cuore di pietra

L’ISOLA DAL CUORE DI PIETRA: PANTELLERIA

Plasmata dal fuoco e dal sole offre itinerari stupendi
tra natura e preistoria con profumi intensi di origano, menta e capperi

a cura di Rocco Lettieri

Pantelleria, figlia del mare e del fuoco, nasce negli abissi marini del Canale di Sicilia, a duemila metri di profondità, da un magma sommerso. Un giorno questo magma si mise in eruzione e la genesi dell’isola dovette essere uno spettacolo apocalittico, poiché si dice che furono almeno cinquanta le bocche eruttive che vomitarono ed accumularono i materiali effusivi che formarono Pantelleria. Un’isola, a detta dei geologi, giovane, che non supera i duecentomila anni.

Adagiata al centro del Mediterraneo, tra due continenti, l’Africa e l’Europa, dista dalla Tunisia 70 Km. e dalla Sicilia 110 Km. La sua superficie è di 83 Kmq e la sua altezza massima è data dalla Montagna Grande, residuo di un antico cratere vulcanico spento, attorno alla quale si irradiano altri 24 crateri e sbocchi minori, detti “cuddìe”. Ha un’altitudine di 836 m. s.l.m. e dalla sommità lo sguardo corre sulle terre siciliane e africane. Il nome, Pantelleria, dal latino panthera (tenda), sembra dovuto al profilo capriccioso delle colline intorno alla Montagna Grande che si “tendono” come reti per catturare gli uccelli e l’isola, in effetti, si trova sulla rotta di molti pennuti migratori.

Per i Fenici fu Hiranim (l’isola degli uccelli starnazzanti), forse per la grande quantità di selvaggina da penna che viveva sull’isola. Quando però, dopo il Medioevo, arrivarono gli Arabi, l’isola ebbe un nuovo, poetico nome: Bent el Rhia, “l’isola del vento”, forse più rispondente alla realtà. Isola dai molti nomi, l’antica Cossyra per i Romani, è anche luogo delle molte civiltà. Fenici, romani, arabi, normanni, svevi, angioini e aragonesi hanno provato a conquistarla, ciascun popolo lasciando tracce della propria cultura e portandone via un frammento dell’integrità originale. Molti resti storici e archeologici, di eccezionale interesse, hanno subìto l’ingiuria del tempo e le barbarie dell’uomo. I famosi “sesi”, costruzioni d’origine preistorica che ricordano i nuraghi sardi, di paternità sconosciuta, nere cupole di blocchi vulcanici che aspettano l’opera di tutela e valorizzazione della Sopraintendenza alle Belle Arti.

Il malcostume e l’abusivismo edilizio stanno mettendo a dura prova tutta la zona archeologica interessata. Pantelleria, contrariamente a quanto si possa pensare, conserva un cuore verde intatto: eriche giganti dalle fioriture spettacolari, ginepri, corbezzoli, gialle ginestre spinose, rosmarini e mirti profumati formano quella che è ritenuta dai naturalisti la vera macchia mediterranea. La flora spontanea annovera circa 430 specie di flora spontanea; 800 ettari sono rivestiti di pini d’Aleppo e pini marittimi di una varietà endemica: i pini di Pantelleria. I loro ombrelli coprono le pendici della Montagna Grande, nera di lecci nel suo versante più ripido. Il forte Maestrale, il terribile Libeccio con le sue raffiche, l’ardente Scirocco che arriva impietoso dalla vicina Africa e il sottile Grecale, si alternano per 340 giorni all’anno in un turbinìo che stordisce il visitatore e rende difficile la vita sia ai circa 10.000 abitanti che ai numerosi turisti che visitano la visitano ogni anno.

Ma nessun problema: questi panteschi hanno insospettate virtù innate ed hanno negli anni sviluppato un’agricoltura specializzata particolarissima, unica nel suo genere, con colture basse o striscianti, che ricordano un poco l’arte del bonsai, e che sembrano il modellino in miniatura di vere estensioni coltivate. Viti nane, capperi striscianti, olivi potati bassi dove ciascuno dei prodotti finali racchiude in sè un vero concentrato di sapori, gusti e aromi mediterranei. Non a caso i vini, le uve, i capperi e l’olio di Pantelleria sono particolarmente pregiati e lo zibibbo e il moscato godono rispettabilissima fama. E’ a loro, ai contadini panteschi, che si deve il modo di proteggere dal vento le coltivazioni cosiddette in “giardino”, muretti semicircolari di pietra lavica, come nell’Isola di Lanzarote. Se ne trovano ancora molti tra i campi, a difendere magari soltanto una pianta di zibibbo solitaria. Le case coloniche, autosufficienti, chiamati “dammusi ”, intonacati di bianco e rosa, sono una specie di parallelepipedo dal tetto piatto o leggermente a cupola per convogliare l’acqua piovana nelle cisterne interrate, con forno e talvolta con mulino, accostati l’un l’altro in modo casuale in un armonico alternarsi di linee e angoli retti, sopravvivono alla trasformazione moderna dell’agricoltura.

Una terra coltivata col sudore perché è così accidentata, lavica e durissima, che nella maggior parte dei casi esclude l’aiuto di qualsiasi mezzo meccanico. Un’agricoltura che è dovuta venire a patto con i venti, con l’acqua che non c’è, col sole che brucia come dimostrano le piccole viti di zibibbo tenute bassissime per evitare che il troppo sole li bruci. Tutta la vita a Pantelleria è una conquista. Persino l’accesso al mare. Tranne le vie naturali di Cala Levante, Gadhir, Sataria e Scauri, le altre bisogna comunque inventarsele: scendere e risalire lungo ripidi sentieri di sassi e di roccia per potersi alla fine tuffarsi nel colore straordinario di questo mare, godere delle sue fiabesche trasparenze, avere la visione del vento che ti parla, di continuo, perennemente. Bisogna capire il mare e il cambiare del tempo durante il giorno, il canto degli uccelli notturni e lo starnazzare delle lunghe squadriglie di migratori.

Non bisogna credere alle agenzie di viaggio che vendono Pantelleria come un’alternativa a Rimini. L’isola è piena di spigoli della sua lava più dura ed è fatta pertanto per quei turisti, convinti, decisi, che la vogliono capire. Una vacanza tra maggio e giugno o tra settembre e ottobre è un’esperienza indimenticabile. 14 Km. di lunghezza, 8 Km. di larghezza, 51 Km. di circonferenza, 200 Km. di strade permettono di scoprire villaggi di dammusi abbandonati, le famose coste di Mueggen, i resti preistorici di Mursia, le tombe di Monastero e Piano della Ghirlanda, i sepolcri reali di Gibbiuna, lo specchio di Venere, (incantevole laghetto nascosto da un giro di colline nelle cui calde acque vi sono fanghi solforosi e “caldarelle” in continua ebollizione).
Scopriamo Pantelleria ma non sciupiamola. Pantelleria è un museo marino aperto come pochi al mondo. Avviciniamola ma con il dovuto rispetto.

La cucina pantesca

La fortuna della cucina siciliana si deve molto ad una delle componenti: l’impiego di aromi, condimenti e droghe. Ma tutto ciò non basterebbe, se l’origano – ad esempio – non avesse particolare fragranza o se si dovesse adoperare capperi che hanno solo il sapore dell’aceto in cui sono conservati. A Pantelleria, tutte le erbe, dal prezzemolo al rosmarino, dalla nepitella al basilico, hanno un profumo intenso che la magìa del clima e la virtù del terreno esaltano in misura maggiore che altrove. Quindi possiamo affermare senz’ombra di dubbio che la cucina di Pantelleria è una cucina schietta, diretta, senza fronzoli e senza sofisticherie. Si mangia quello che offre l’isola e quello che “regala” il mare. Prodotti che vengono preparati nella maniera più semplice e con risultati sorprendentemente mediterranei: gustosi piatti dove l’olio, il pomodoro, i capperi, l’origano sono onnipresenti.

Coltivate nella dura roccia lavica frantumata, sono famose le lenticchie, piccolissime e saporitissime, che non hanno bisogno di essere messe a mollo. Il mare offre cernie, canocchie, dentici, polpi, seppie, ricciòle, aragoste e spigole che vengono servite nel modo più semplice e naturale con un condensato di profumi, colori e sapori che sono un’esaltazione delle tradizioni. Di chiara derivazione araba è il cous cous: granelli di semola cotti al vapore conditi con sugo di pesce e serviti con verdure quali patate, melanzane, peperoni, carote, piselli insaporiti tutti insieme e ravvivati all’ultimo momento con l’aggiunta di alcuni spicchi d’aglio crudi e peperoncino.

Una citazione a parte merita il cappero (capparis rupestris) che è una pianta di origine africana che ha trovato il suo abitat naturale sull’isola. Pianta a piccolo cespuglio fornisce i frutti che altro non sono se non gemme fiorali, cioè i boccioli ancora chiusi, che dopo la raccolta vengono conservati sotto sale marino. La coltivazione del cappero permette a molti abitanti di poter sbarcare il lunario degnamente e la richiesta è sempre più crescente in quanto il cappero è considerato dai cuochi una vera sorta di “caviale vegetale”. Acquista importanza fondamentale in alcune salse, in particolare per quella da usarsi per il vitello tonnato, ma non può mancare in piatti dove entra già l’acciuga. Molti chef emergenti hanno pure scoperto i “frutti del cappero”, molto più grossi, con un peduncolo quasi fossero cetriolini, che danno alle pietanze un gusto ancora più determinato. Sono usati in particolare per pesci al cartoccio.

La Poesia di Enrica Frigerio

Pantelleria nel cuore

Sei una briciola di terra nera,
piccola isola
smarrita
nel Mediterraneo blu.

Il vento e le correnti
han forgiato le tue coste
che appaiono orgogliose,
ora docili e ora capricciose.

Indomita,
ribelle,
determinata e impavida,
per nulla intimidita
dal fragore dell’onda
che s’infrange sui tuoi fianchi,
dal sibilo del vento
che gioca tra i tuoi rami,
dal calore del sole
che brucia la tua pelle.
I tuoi muri di pietra nera
sanno raccontare storie antiche,
indelebili,
che parlano di fatiche,
di terra e di mare;
storie che conoscono
il profumo del tempo.

Nulla di te è cosa da poco:
i tuoi colori incantano,
i tuoi profumi stordiscono,
i tuoi sapori conquistano.

Le tue vigne
basse
e contorte,
sono il miracolo
della vita
che si rinnova dalla terra,
questa terra arida
nel cui ventre dorme un vulcano,
finalmente domato
a custodire uno scrigno di tesori.
Resta sempre così
“piccola perla nera,
figlia del vento”
smarrita nel Mediterraneo.

Io devo partire
ma con me porterò
i tuoi silenzi incantati,
i colori del tuo cielo,
il profumo del tuo mare,
il sapore del tuo vino,
le grida dei gabbiani,
la disponibilità e
l’allegria della gente,
il fresco e la quiete di un dammuso,
e la tenerezza infinita
di un bianco e delicato
fiore di cappero
che nella luce-madreperla
dell’alba,
sboccia d’incanto
ricamando un nuovo giorno
ed una roccia nera.
Come hai potuto
stregare il mio cuore
in un tempo così breve?

Io devo partire,
ma al mio cuore,
sono certa,
manca un pezzettino:
è rimasto impigliato
tra i fichidindia
e il rosmarino.

Sarai sempre parte di me,
Pantelleria,
piccola,
meravigliosa,
isola magica. Pantelleria, giugno 1999

Ben Ryé: il figlio del sole e del vento: un “dolce” tesoro pantesco

a cura di Rocco Lettieri

Leggendo il palmarès del Ben Ryé, il Passito di Pantelleria DOC della Tenuta di DONNAFUGATA, par di scorrere un medagliere ad honorem tanto è lungo e ricco di significativi riconoscimenti nazionali ed internazionali. Tra gli altri spiccano la “Medaglia d’Oro al Concorso Enologico Internazionale del Vinitaly 2000” e la “Medaglia d’Oro XIX° Banco d’Assaggio di Torgiano” nel 1999, la quinta ottenuta dal passito pantesco dopo quella ad esso assegnate già nelle edizioni del ’98, ’95, ’94 e ’93; tra gli attestati internazionali figurano in particolare la Medaglia d’Oro al francese “Challenge International du Vin” edizione 1997 ed il Primo Assoluto ai “Vini Naturali Dolci” assegnato in occasione del CIVART di Bordeaux sempre nel 1997; quest’ultimo, attribuito al Ben Ryé, in qualità di vincitore – nella sua categoria – del confronto fra tutte le Medaglie d’Oro del Challenge International. Non ultimo a Parigi, lo strepitoso successo al “Vinalies Internationales 2000”, uno dei più importanti concorsi enologici del mondo – dove i due massimi riconoscimenti conquistati dall’Italia sono stati attribuiti al “Ben Ryé” e al “Mille e una notte” il vino rosso di DONNAFUGATA prodotto a Contessa Entellina, le famose terre de Il Gattopardo.

Anche il grande maestro Luigi Veronelli ha voluto sottolineare questo felice momento assegnando al Ben Ryé il “Sole” e un punteggio di 92/100. La lista potrebbe continuare a lungo, ma sarebbe inutile illustrarla sistematicamente. Ciò che invece va colto è l’universale apprezzamento ricevuto dal prezioso passito isolano, a tutti i livelli: dove è stato presentato, ha colpito i degustatori, ottenendo unanimi consensi.

Ecco allora l’aspetto fondamentale di tutta la questione: capire come mai proprio il passito di Donnafugata, fra i numerosissimi vini da dessert italiani ed europei, ha ottenuto un così ampio successo. Per capirlo, crediamo, occorre intraprendere un percorso a ritroso. Seguire un ideale “filo di Arianna” che lega l’uva della cruda terra pantesca alla prorompente sensualità del Ben Ryé, con le selvagge e dure caratteristiche ambientali e climatiche dell’isola di Pantelleria.

Infatti, solo condizioni così estreme, riteniamo, possono generare frutti così “ esasperati ” nel regalare emozioni a chi li sperimenta. E coi sensi, e col cuore. Già, perché la mera analisi organolettica, se non dà spazio ad un’anarchica valutazione emozionale; solo una vera immersione nel Ben Ryé, sarà un fattore antropico che ci aiuterà ad interpretare appieno il nostro percorso anche degustativo. Quindi quando osserviamo in controluce le tinte giallo-dorato cariche, assunte da questo nettare pantesco, dobbiamo subito pensare al processo naturale di appassimento delle uve, durante il quale le bacche, stese nei tunnel, “sudano” sino a perdere il 40% del peso originario, alla difficoltà tecnica di condurlo a termine ed al lavoro che ci sta dietro, al fatto che al mosto – durante la lunga fermentazione alcolica – vengono aggiunti gli acini appassiti, sgrappolati a mano, uno per uno e via elencando, ma occorre anche pensare che tutto ciò non sarebbe possibile senza il fiero e determinato sole isolano che, a braccetto con gli incessanti e torridi venti (se ne contano almeno cinque che sferzano l’isola per 340 giorni all’anno), solca le rughe dei vignaioli dell’isola e fa raggrinzire le bacche di Zibibbo, arricchendole di colore. Par che si abbronzino, vanesie che sono, queste uve di Pantelleria!

In degustazione, accostando il calice alle narici siamo inondati da una folle intensità di sensazioni. Innumerevoli, variegate, l’una con l’altra giocosamente a rincorrersi e ad avvicendarsi. Al contempo complesse nel loro dispiegarsi, armoniche nel loro contemperarsi, immediate nel loro significare. Sentore primario che ci richiama – netta, subito – l’albicocca, quella piccolina secca. E poi un effluvio di altri profumi, dai datteri ai fichi secchi, dal cedro candito alla rosa appassita, dall’uvetta sultanina al miele di corbezzolo. I ragionamenti si accavallano, il pensiero ritorna all’appassimento e alle precise tecniche di vinificazione altrimenti gli aromi non potrebbero assumere certe concentrazioni e uniche caratteristiche. Un accorto affinamento – rigorosamente in acciaio ed in bottiglia, giammai in legno per questo tipo di vino – e sembrerebbe di poter dire che il gioco è fatto.

Ma come la mettiamo con un vino così mediterraneo, col suo “fresco” calore, impetuoso ma mai oppressivo, che riporta con la mente alla brezza marina, alla silvana macchia, quaggiù riarsa – ma non disseccata – dalla preziosa stella “solare”, alla flora, ai capperi, alla menta, al finocchietto ed alla frutta: uniche per colori, profumi, varietà, sapori. Insomma una culla preziosissima, un liquido amniotico insostituibile, costituito dalla terra e dal clima, senza il quale certe sensazioni così calde (ma non brucianti), dolci (ma nient’affatto stucchevoli), mature (ma per niente stantìe), non potrebbero essere offerte e godute. Porgendo il bicchiere sulle labbra e sorseggiando una piccola quantità di Ben Ryé, la piacevolezza, l’opulenza, la suadenza del nettare, ampiamente preannunciate dal prorompente bouquet, vanno oltre ogni previsione. Il corpo e gli estratti sono smisurati. Grasso è il tatto. Fresco, morbido ed armonico, nel bilanciare mirabilmente una grande dolcezza con una giusta acidità, il gusto. Assai persistenti sono le sensazioni che si avvertono, tanto impregnano le papille gustative. In più, oltre a tutte le impetuose sensazioni palatali, vengono riproposti, ancora più intensi e quasi “ istrionici ”, tutti i richiami che si erano colti al naso.

Certo è facile ed immediato spiegare tanta esuberanza ricorrendo a valutazioni tecniche: basti pensare che occorrono 3,5 kg. di uva per produrre un litro di passito di Pantelleria, che ogni pianta produce 2 kg d’uva, mezzo litro di vino insomma, che l’età media del vigneto è di 40 anni, che il terreno è vulcanico, sciolto e ricco di minerali: tutto ciò potrebbe benissimo essere (tecnicamente) sufficiente per comprendere le ragioni di un vino così polputo. Liberati dal giogo dei tre sensi, tradizionalmente coinvolti nell’analisi sensoriale, – da freddo degustatore -, si pensa agli acini di Zibibbo che lentamente si prosciugano, sotto raggi che ne penetrano gli spessi epicarpi facendo vaporizzare l’acqua in esubero. Figurati il vignaiolo che, ogni giorno, rivolta gli acini e ne controlla la sanità. Considera la pazienza e la pervicàcia che deve avere il contadino (angelo matto di Veronelliana memoria) per allevare l’alberello, quasi completamente interrato all’interno di una conca che lo difende dall’incessante vento e dal violento sole.

E’ solo facendo propri questi pensieri, “sentendoli”, riflettendoci sopra (più con i sentimenti che con l’intelletto), che si potrà capire pienamente la vera dimensione del Ben Ryé ed il reale senso della sua grandezza. E quindi – va da sé – la superiore considerazione di cui gode ed i premi che ha via via conquistato. Il suo essere annoverato – in definitiva – fra i migliori vini da dessert del mondo. Ecco quindi spiegato l’iniziale quesito, chiarito il segreto di questo “unico” passito e della sua fama. Un segreto, dunque, la cui spiegazione va oltre la scienza e la tecnica, l’agronomia e l’enologia, per sostanziarsi in una trascendente e simbiotica fusione fra natura, vino e colui che vi si accosta.

Ecco perché al “Pavarotti and friends”, organizzato con scopi benefici, l’azienda Donnafugata ha presentato agli artisti riuniti da Luciano Pavarotti, il suo “Ben Ryé “, dove anche Biagio Antonacci, Gaetano Veloso, George Micheal, Enrique Iglesias, e con loro gli Eurythmics e gli Skunk Anansie, hanno potuto gustare il famoso passito nel corso delle cene organizzate al termine delle prove dello spettacolo. E il Ben Ryé è stato molto apprezzato dal clan degli artisti per la sua solare fragranza e per l’armonia dei suoi profumi, riconoscendone l’unicità del suo carattere.

“E’ stato davvero bello poter offrire agli artisti internazionali di Luciano Pavarotti un vino di grande classe, intenso ed armonico come il Ben Ryé; abbiamo voluto trasmettere – ha spiegato José Rallo di Donnafugata – il calore di una terra prodigiosa e di gran fascino. Il Ben Ryé è il figlio del sole e del vento di Pantelleria, un prodotto inimitabile che sta conquistando il favore dei mercati più esclusivi ”.

A cura di Rocco Lettieri