DOLCEMENTE …ERICE con Slow Food – Convivium –

Come “TUTELARE LA BIODIVERSITÀ”

«La promozione della tipicità, ma anche la sua difesa, è uno dei compiti degli enti pubblici, non in una logica di protezionismo, ma di corretta valorizzazione del Made in Italy». Lo ha detto il Presidente della Camera di commercio di Trapani, Giuseppe Pace, intervenendo al convegno «La biodiversità dalla Sicilia al mondo» organizzato da Slow Food nell’ambito della manifestazione «Dolcemente Erice». Dopo aver ribadito l’importanza della promozione del prodotto tipico «attraverso campagne ed iniziative specifiche», Giuseppe Pace ha sottolineato la necessità di «programmare e pianificare iniziative e progetti rivolti alla difesa della biodiversità perché è dimostrato che le produzioni su larga scala e l’agricoltura cosiddetta industriale stanno inesorabilmente falcidiando molte varietà tradizionali, favorendo al tempo stesso lo sviluppo di monoculture che sono molto produttive ma anche vulnerabili».
Il Presidente della Camera di commercio, nel suo intervento, ha inoltre rilevato come «la Sicilia, in questi anni, e con successo, si è mossa sul piano della promozione delle varietà autoctone» ed ha riconosciuto ai Presidi di Slow Food il ruolo di «baluardo contro i numerosi e ripetuti tentativi di distruzione del patrimonio agricolo, alimentare e culturale italiano». Pace ha infine ricordato che «da parte sua la Camera di commercio, negli ultimi anni ha promosso alcune iniziative finalizzate alla riscoperta delle produzioni tipiche locali minacciate da un altro male oscuro: l’oblìo. Con la manifestazione “Trapani produce…e cammina”, due anni fa, si è contribuito a fare conoscere ai trapanesi le produzioni agroalimentari tipiche della provincia e sollecitato i ristoratori a preparare e servire piatti tipici locali, contribuendo così alla loro valorizzazione».

All’incontro ha portato il saluto il sindaco di Erice, Ignazio Sanges. Sono intervenuti anche Pippo Privitera, responsabile Presidi Slow Food della Sicilia Orientale, i gastronomi e responsabili di Slow Food Nino Aiello e Giancarlo Lo Sicco, l’avv. Felice Crosta dell’Assessorato all’Agricoltura, il dott. Gambino, del comune di Alcamo e Franco Saccà, coordinatore regionale di Slow Food.
Inoltre ha tenuto un interessante intervento il dott. Paolo Di Croce, responsabile dei Presidi Italiani e Internazionali e Segretario Generale della Fondazione Slow Food per la biodiversità onlus. Queste le sue parole:
SICILIA, L’ISOLA DELLA BIODIVERSITÀ
Prima di fare il mio intervento debbo fare una piccola considerazione che deriva anche dalla mia attività professionale. In questi ultimi anni stiamo assistendo ad una sorta di mutazione antropologica da parte del personale politico che gestisce enti pubblici e ambientali; fino a qualche anno fa c’era una sordità, una assoluta mancanza culturale; fortunatamente queste cose sono cambiate, alcuni nostri paesi della Sicilia sono noti anche a livello internazionale. Detto questo leggo velocemente questo testo che ho intitolato “Sicilia”:
“Due fenomeni hanno caratterizzato lo scenario economico-sociale siciliano dopo l’approvazione dello Statuto Speciale del 1946. Uno attiene alla mancata industrializzazione o meglio al fallimento del programma industriale regionale, che aveva suscitato molte speranze, e che si pensava avrebbe liberato la Sicilia dalle stretta dei monopoli nazionali e creato una nuova classe indigena di imprenditori. Non fu così: gli enti regionali istituiti per generare ricchezza sprecarono solamente risorse finanziarie e gli importanti poli industriali di Gela, Milazzo ed Augusta, messi su con poca lungimiranza, con impiego massiccio di capitali e pochi occupati, non favorirono affatto lo sviluppo dei settori secondari. Queste “cattedrali nel deserto”, come furono chiamate, arrecarono, inoltre, gravi ed irreparabili danni ambientali senza, per altro, un ritorno compensativo. Non meno deludente è il bilancio nel comparto agricolo: nel periodo 1951–1975 oltre un milione di siciliani abbandonò l’Isola per il Nord Italia, la Svizzera e la Germania. Erano quasi tutti contadini in cerca di lavoro. Per certi versi risolsero il problema della sovrappopolazione rurale, aumentando i salari di quelli rimasti e contribuirono, con le loro rimesse, all’innalzamento del tenore di vita complessivo. A ciò si aggiunga l’abbandono delle campagne di molti piccoli proprietari terrieri ed i pochi investimenti effettuati – per miopia o mancanza di capitali – da parte dei latifondisti. Eppure, questo scenario desolante – di mancato decollo del sistema industriale e di modesto sfruttamento esteso ed intensivo delle potenzialità del comparto agricolo – ha paradossalmente evitato alla Sicilia, come accaduto in altre regioni, anche europee, la sparizione dell’immenso patrimonio legato alle specie vegetali ed animali ed ai saperi, pur eroso dall’incuria e dall’abbandono. L’Isola conserva una stupefacente biodiversità, incarnata da varietà di frutta, di razze, bovine, ovine, caprine, suine ed equine, di derivati della pesca, come la bottarga di Favignana, di lenticchie, di frumento e tanto altro ancora. C’è di più: il plurimillenario mondo dei casari esprime con le sue tecniche e le sue pratiche saperi antichissimi che danno vita a formaggi d’eccellenza come il Maiorchino, la “Vastedda” della Valle del Belice, ed il Ragusano, tanto per citarne alcuni. Aree immense e ben tutelate come quelle dei Nebrodi, delle Madonìe e dell’Etna, autentici distretti della biodiversità, sono scrigni che conservano ricchezze che non hanno eguali e che devono essere custodite e preservate. La salvaguardia di queste risorse, della loro diversità, è una grande operazione, dai molteplici aspetti: culturali, perché tutela saperi antichi che sono già nella Storia; economici, perché vengono salvati redditi di gruppi sociali e di singoli operatori; ambientali, perché il casaro, il frutticoltore o il vignaiolo sono i custodi più attenti del loro habitat e dell’ecosistema, e rendono un servizio a tutta la comunità. Tutto ciò potrà servire anche come stella polare di un nuovo modo di essere comunità rurale e contadina che “renderà coerente lo statuto di contadino con la rendita e la qualità dei prodotti nel rispetto delle risorse naturali”. L’utilizzazione e la valorizzazione delle risorse autoctone “è un modesto tassello di una nuova politica”. E La comunità rurale, nel suo insieme, “non è soltanto un soggetto di analisi antropologica ma può incidere sulla politica, sull’economia e sulle scienze con risultati straordinari ed inaspettati”. I 28 Presidi siciliani – la Sicilia vanta il maggior numero di Presidi fra le regioni italiane – sono solo la punta di una piramide dalla base ampia, metafora di una realtà più unica che rara. Essi esprimono simbolicamente – e praticamente – un contesto caratterizzato da una biodiversità straordinaria. La consapevolezza di questa ricchezza, di questa immensa risorsa dovrà orientare anche l’agricoltura isolana nel suo complesso. Che dovrà essere sempre più volta alla qualità, sostenibile, compatibile ed OGM free. In questa battaglia, che impegna tutte le componenti di Slow Food Sicilia, di grande valenza e di grande aiuto è ed è stata, su questi temi, la sensibilità dell’Assessorato Regionale all’Agricoltura con tutti gli uomini che vi lavorano.

Di seguito, l’intervento di Carlin Petrini, presidente di Slow Food:

“Lasciatemi innanzitutto esprimere la mia gioia di essere qui, in questo posto dove 10 anni fa ho tenuto la prima conferenza di questa associazione. E se penso a ciò che è successo in 10 anni ancora non mi rendo conto dei risultati che abbiamo ottenuto. L’intervento così come si è caratterizzato nello sviluppo delle attività espressive qui in Sicilia è un fenomeno che mi riempie di orgoglio. Orgoglio innanzitutto per aver assistito e lavorato nella trasformazione di questa nostra associazione da associazione enogastronomica ad associazione che ha come sua missione fondamentale il rispetto dell’ambiente e della produzione alimentare. Abbiamo più volte detto che dovevamo uscire dal pollaio della gastronomia fine a se stessa e da questa sorta di dualismo tutto concentrato sui profumi e sui gusti senza dimenticare che dietro ai nostri prodotti c’è la sapienza, la storia e l’identità culturale di un popolo. Essere gastronomi oggi senza avere questa consapevolezza, credetemi, è da stupidi, è da sciocchi. Noi abbiamo fatto questo percorso, per certi aspetti, all’inverso; siamo partiti dall’esigenza e dal piacere gastronomico per arrivare alla coscienza che questo diritto al piacere non è garantito se non si lavora per il mantenimento dell’ecosistema, dell’ambiente e delle produzioni tradizionali.
È stato un percorso abbastanza difficile perché, vedete, in quei tempi lì, e non mi riferisco al dopo guerra ma a dieci anni fa, oggi vedo qui in prima file amici produttori e ricordo i miei primi viaggi in Sicilia, con la Guida Veronelli in mano, e il vino siciliano era un’altra realtà e i produttori di eccellenza si potevano contare sulle dita di due mani (circa una decina). Vedere che cos’è oggi l’enologia siciliana è una cosa meravigliosa. Uno non pensa ad un rinascimento ma a qualcosa di straordinariamente interessante per il sistema “paese”, non per la Sicilia. Credetemi questa regione ha uno scrigno pieno di tesori che debbono essere riconsiderati e rivalutati perché diversamente si rischia di perdere quella che io definisco “sapienzialità” dei vecchi contadini, quel modo di lavorare e quel tipo di produzione, che i francesi chiamano savoir faire, che una volta estinta quest’ultima generazione di anziani coltivatori e lavoratori dei mari e della terra, noi rischiamo di non avere più.
Si rischia insomma di perdere questo patrimonio culturale. In quegli anni qual’era l’elemento che noi dovevamo mettere più in evidenza? Era il fatto che questa produzione in qualche misura è patrimonio culturale dell’intero Paese. Vi ricordo che nel 1994 prima ancora del “salone del gusto” noi abbiamo sviluppato a Milano un’iniziativa che allora si chiamava “Milano golosa” e in quel frangente lanciammo il primo segnale: non è possibile che il sistema Italia abbia un riconoscimento d’immagine così forte nel campo della moda e che nel settore agroalimentare non sia considerato né valorizzato. Invito tutti a riflettere su che cosa è successo negli ultimi dieci anni: forse proprio la complessità delle cose ha addirittura ribaltato le cose.
Oggi l’agro-alimentazione non solo è diventata di moda ma stramoda e se ne fa uso e abuso di agroalimentare. Certamente però cogliere le valenze culturali che stanno dietro a questi prodotti è la chiave di tutto, è l’elemento strategico su cui lavorare.
Antichità evoluta è la “sapienzialità” che c’è dietro a questi prodotti, messa al servizio di una nuova realtà storica, politica, sociale ed economica. Noi dobbiamo essere coscienti che in qualche misura torneremo al primario e il primario in quanto tale ha una sua valenza dirompente ammesso che siamo in grado di studiare una nuova ruralità, una nuova agricoltura, un nuovo modo di essere in campagna, un nuovo modo di rispettare questi patrimoni, perché se qui non utilizziamo tutta la nostra fantasia, tutta la nostra determinazione, rischiamo di buttare via il bambino con l’acqua sporca, rischiamo di avere un concetto di modernità che è fasullo. Non c’è niente di più moderno oggi che portare questi prodotti a valori alti, ad alto livello; il percorso è ancora lungo, credetemi è ancora lungo, ma nello stesso tempo è anche entusiasmante. Vedete qui si è creato un momento, una realtà istituzionale, in felice sintonia tra il territorio e le persone. Avere gente che gratuitamente dedicano il tempo libero in questa missione culturale è un punto di forza a nostro favore, e noi oggi abbiamo 120 mila soci presenti in 42 Paesi nel mondo.
Questo circolo virtuoso tra istituzioni, produzione e lo Slow Food (associazione volontaria no profit) può essere la chiave di volta per portare avanti questo obbiettivo, che è un obbiettivo di difesa della “Biodiversità”. Ma qui stiamo parlando di storia di economia di patrimonio. Una complessità che fa della “gastronomia” una scienza multidisciplinare perché dietro ad essa c’è tutto un insieme di altre attività come la zootecnia, l’agronomia, l’enologia e quei sapori scientifici e quei sapori umanistici della storia dell’alimentazione, della storia delle cucine. Il gastronomo che si sofferma solo sugli aspetti culinari è un idiota. Il gastronomo deve avere coscienza della materia prima. Deve maturare nella sua formazione quella scienza minimale che lo rendono un soggetto di grado di interloquire tra produttore e consumatore. Non ci sono più i consumatori per classi. Non c’è più una divisione dei ricchi e dei poveri e questa faceva la differenza dei consumi. Conosco fior di ricchi che mangiano delle cose incredibili, delle schifezze inanerrabili e conosco pensionati che si permettono di andare alla ricerca di quel prodotto di mercato, con moderazione, ma di qualità.
L’opzione dei consumi è una scelta, una scelta individuale, una scelta culturale, una scelta di piacere. Un circuito vizioso che dobbiamo attivare su altri fronti. Mangiare è il primo atto agricolo. Chi mangia bene determina un certo tipo di agricoltura, chi mangia male sostiene un altro tipo di agricoltura. Perché Slow-Food si inserisce in questo crocevia? Perché non è possibile parlare ai produttori se non ci sono consumatori che hanno questa concezione. Ma se è vero che il mangiare è il primo atto agricolo, coltivare e produrre è il primo atto gastronomico. Perché se il consumatore è cosciente che nel modo in cui mangia determina l’economia agricola, i produttori devono essere coscienti che nella maniera in cui producono determinano la prima opzione gastronomica. Se io produco delle ciofeche, se il mio interesse è l’avidità economica e il non rispetto per l’ambiente, io determino un certo tipo di gastronomia: siatene certi che è così. Slow-food si batte perché questo non avvenga.
Di altre associazioni ce ne sono tante, chi con gualdrappe o mantelli, chi con nomi di confraternite della salsiccia, della ricotta o gran maestri di che-so-io. Io parlo con rispetto e amicizia a questi gastronomi ma il concetto di fondo è che se noi ci riduciamo ad essere solo degli osservatori della parte finale, noi non sposiamo quello che è il concetto vero di gastronomia che Brillant Savarin ha magistralmente descritto. Sto parlando del 1825 e della fisiologia del gusto. Ribadisco 1825. La gastronomia è tutto quello che riguarda l’uomo che si nutre. E l’uomo che si nutre fa anche agronomia, fa anche economia dello scambio pagando i prodotti, fa anche educazione gusto-olfattiva, dà un contributo alla digeribilità del prodotto. Questa concezione interdisciplinare, all’interno della quale ci stanno le scelte, ci sta anche l’Umanesimo e ci sta anche la salubrità della nostra persona fisica. Questa concezione, dicevo, non l’ha inventata Slow-Food; è la concezione fondante della gastronomia. Fondante ripeto!! Io parlo non perché sono piemontese e quindi vedo la vicina Francia con un occhio di riguardo, ma se vogliamo parlare della tradizione della cultura classica ellenica e latina bisogna dire con altrettanta chiarezza che tutti gli studiosi di agronomia e di produzione avevano sempre questa visione interdisciplinare. Se leggete Plinio non avrete una visione di un tecnico bensì di uno storico, di un qualcuno che leggeva l’ambiente, descriveva l’ambiente, descriveva l’economia e gli scambi economici. Badate che quei testi sono ancora stampati nella nostra coscienza e solo un paese di scaramacai può permettersi il lusso di prendere questo patrimonio e buttarlo nella spazzatura. Noi dobbiamo essere orgogliosi proprio perché siamo in terre che hanno espresso questi geni e dobbiamo riappropriarci di questa memoria.
Un’altra cosa vorrei che fosse ben chiara ed è la “scientificità” del mondo contadino che va abbinata alla scienza moderna. Guardate, da questo punto di vista abbiamo un piacevole contraddittorio con l’università italiana. Per altro, avendo anche noi la prima Università di Scienze Gastronomiche, almeno, come si suole dire, non ci sediamo sotto il palco. Ci sediamo anche noi al tavolo. Quando parlavo con molti scienziati, in genere tecnici dell’alimentazione, dicevo: guardate la “sapienzialità” del mondo contadino. Essa ha la stessa dignità della “sapienzialità” della cultura scientifica. Non abbiamo bisogno che la cultura scientifica dimostri che le teorie contadine sono valide. Ma forse la cultura scientifica non fa errori? Voi pensate che “mucca pazza” sia nata dalla “sapienzialità” dei contadini, dagli allevatori inglesi? “Mucca pazza” è nata dalla “sapienzialità” delle scienze più altolocate che pensavano di poter dare da mangiare dei rottami di pecore a dei bovini per razionalizzare la produzione dei bovini. Non è certamente un contadino che si è sognato di dare da mangiare una pecora ad una vacca. Ora se questo è vero la nostra posizione non è quella di dire “tutto vero, tutto bianco” bensì di dire che questi due mondi della scientificità debbono colloquiare. Nel colloquio di questi due mondi si ottiene una sintesi positiva che fa in modo di portare avanti una nuova scelta. Questa è la nostra posizione e la difendiamo con le unghie e coi denti perché è nel momento in cui questi prodotti sono collegati alla loro storicità, al fatto che fanno parte di una nostra intrinsicità, quasi antropologica, quasi da cordone ombelicale. In questo momento si esprimono i frutti di quella sapienzialità che donne, uomini e contadini ci hanno trasmesso. Noi li dobbiamo rispettare in quanto tali e saperci leggere la loro modernità. Ecco allora che questo concetto ci porta a parlare direttamente ai produttori. Io sono felice di vedere qui fra questo pubblico molti produttori. E non solo quelli del vino. Gli obbiettivi dei “novaruralità” sono quelli di rispondere a questa domanda che è diffusa ed è un obbiettivo strategico. Dobbiamo andare avanti ma tutto questo non si realizza se da parte di voi produttori non c’è il “governo del limite”, ripeto il governo del limite.
Cerco di spiegarmi. Grazie a voi facciamo dei “disciplinari” e grazie alla vostra attenzione aumentano gli addetti, aumenta la produzione, aumenta la redditività. Tutti fenomeni positivi perché se non aumenta la redditività, dalle mie parti si dice che… “la terra è bassa”. E’ difficile convincere un giovane a lavorare la “terra bassa” se non c’è la resa finanziaria e non solo finanziaria ma anche di autostima, di gratificazione personale. Il giovane non vuole sentirsi solo un contadino, cioè l’ultima ruota del carro, bensì un intellettuale della terra e come tale vuole essere rispettato in quanto operatore di economia. Ecco allora che se noi abbiamo questa coscienza bisogna fare in modo che ci siano ben chiare almeno due coordinate: la prima è che nessuno faccia ombra all’altro e quindi “gioco di squadra”. Questo è un discorso che, credetemi, è difficile in tutta Italia. Anche nelle mie Langhe quando iniziò il fenomeno del “rinascimento”, del vino langarolo, molti produttori, vedendo dei leader come Gaja, pensavano di fare cosa meritevole quando arrivava un giornalista dall’estero di dire: “anch’io faccio il barbaresco uguale a quello di Gaja e costa molto meno”. In quel momento quei signori non capivano che si davano la mazza sui piedi. Non danneggiavano Gaja ma se stessi. Fare gioco di squadra significa avere una matura e reciproca assistenza, fare in modo che la qualità sia il bene comune e fare in modo che nel gruppo si rafforzi l’identità e il prestigio del marchio. Quest’ultimo è innanzitutto il nome del paese e il nome del prodotto. Se io ritengo ottimo il “Pane nero di Castelvetrano” da quel momento in poi che io sia un panificatore o meno non c’entra niente. È il “Pane nero di Castelvetrano” che dà il valore aggiunto a me. Vi porgo un altro esempio che ho fatto proprio ieri a Palermo. Durante il primo viaggio in California con i produttori di vino, Angelo Gaja pubblicizzava alla grande il suo nome scrivendo in piccolo “barbaresco” perché, diceva lui, in fin dei conti è il mio vino che vogliono. In seguito in una conferenza stampa presentò il territorio e un giornalista gli chiese: “Scusi signor Gaja ma Alba è vicino a Firenze”? In quel momento fu chiaro a tutti che il non avere chiara l’identità del territorio è un danno anche per l’impresa. Innanzitutto quindi bisogna fare marchio del territorio, esserne orgogliosi, portarne alta la bandiera, fare gruppo, fare squadra. In questo modo si ha una potenzialità straordinaria. Il sole sorge per tutti. Ma dirò di più: c’è più sole se si fa squadra che non se si fa l’un contro l’altro armati. Secondo elemento: governare il limite. Vuol dire che prodotto per prodotto ognuno ha una sua sostenibilità. Molti prodotti probabilmente possono essere incrementati ma non tutti. Quando ho portato l’esempio dei semi di melone io ho letto che qui se ne producono pochi. Credetemi se li conoscessero per tutta l’Italia faremmo andare fuori di testa alcuni, anzi molti ristoranti italiani. In alcuni casi perciò bisogna aumentare la produzione ma in altri la produzione si deve limitare. Produrre troppo porterebbe fuori prezzo e non sarebbe più remunerativo. Quindi ribadisco “governare il limite” cioè riconoscere queste cose e capire, intuire la sostenibilità dell’ambiente, della produzione e del mercato. È fondamentale non farsi prendere dall’avidità che è la peggiore consigliera di tutti. Dico questo specialmente ai produttori di vino, produttori di vino siciliani, non fate gli errori che hanno fatto i miei conterranei del Barolo che in virtù del fatto che il Barolo veniva richiesto in tutti i momenti, dal 1982 hanno pensato bene che, sia che fosse un’annata buona, sia che fosse meno buona o pessima, hanno sempre aumentato i prezzi. Ad un certo punto il mercato ha detto basta. Ora capite bene che il rapporto qualità prezzo vale per tutti. Adesso per governare la crisi io raccomando un pò di orgoglio, voglio dire che ci sono dei produttori che stanno abbassando i pantaloni e in questi casi delle due l’una: o i soldi li hanno rubati prima o altrimenti sei un deficiente perché stai vendendo sottocosto. È questa l’immagine che si ha dall’esterno. Ma che cos’è che spinge a non essere avidi? “Il giusto governo del limite”. Io porto sempre l’esempio di una cuoca delle Langhe. Ha una trattoria straordinaria, si mangia benissimo. Questa cuoca tiene aperto il mezzogiorno e la sera chiude. Ci sono andati personaggi famosi e giornalistici a chiederne il motivo. Le dicevano: perché chiudi la sera, ti rendi conto che potresti fare tanto di quei soldi in più? Sapete quale fu la sua risposta? “Io non ambisco a diventare la più ricca del cimitero”. Se tanti produttori avessero questa coscienza del limite e che siamo su questa terra non in eterno e pensassero a fare una vita migliore, cioè più rilassata, proprio per questo avrebbero un’immagine più simpatica e senz’altro meno nevrastenica. Il marketing va sposato come elemento di vita. Sapete qual’è il miglior marketing? Siete voi stessi. Il miglior marketing ripeto è essere se stessi. Se uno è se stesso si vende benissimo, sia coi suoi pregi che con i suoi difetti e fa il miglior marketing che si possa inventare. Se uno va a studiare per essere qualcun altro è un disastro. Perciò produttori credetemi: questa possibilità è nelle vostre mani. Io voglio parlare sia per quelli che sono già in attività che per quelli che stanno nascendo e chiedo di ascoltarmi anche alle autorità. Abbiate tutti la sensibilità di fare in modo che questa Sicilia ritorni ad appropriarsi del suo patrimonio, perché questo patrimonio è fonte di ricchezza umana, spirituale ed economica. Cose che vanno considerate tutte e tre insieme. Guai ad averne una sola. È giusto quello che dice sempre Pippo quando afferma che nessuno è forte nel mondo se non è forte a casa sua. L’ultima volta che sono venuto qui cinque anni fa c’era una crisi delle arance rosse che non vi dico. La Regione faceva giustamente in ogni parte del mondo, promozione delle arance rosse di Sicilia. Vado a Palermo, nel miglior bar, chiedo una spremuta e mi danno una spremuta di arance qualsiasi. Ho chiesto: ma le arance rosse non le avete? Mi hanno risposto: no, noi qui le arance rosse non le teniamo. Badate che far la promozione all’estero di un prodotto che poi uno straniero non trova nel paese di origine è un boomerang. Cosa volete che pensino all’estero: pensano, vengono da noi a proporlo e loro non lo consumano? Questo è un elemento fondamentale nella promozione commerciale. Perciò questa operazione di educazione della ristorazione è inutile se la ristorazione stessa si dimostra poco identitaria; ci vuole una ristorazione di maggiore identità nella materia prima. Questa Sicilia non può essere la terra di scorribande del mercato italiano. La pasta, come il vino, come le altre materie, non devono arrivare da ogni dove. Questa dev’essere la terra che ha l’orgoglio di avere una produzione interna e la forza di consumare i propri prodotti. Se non passa questo concetto, città strepitose come Taormina o Erice perderanno attrattiva. Io non vengo qui per mangiare la Barilla, ma per mangiare la pasta che fanno qui. Non è giusto che gli enti pubblici spendano per promuovere i prodotti siciliani all’estero se non si convincono i siciliani stessi a consumarli nei loro locali. Va fatta una grande operazione culturale di rigenerazione della ristorazione isolana. La ristorazione isolana deve presentarsi ai tavoli con orgoglio per dire che la materia prima l’ha acquistata magari a 30 km di distanza. Che i prodotti li ha trovati nei paesi vicini, che questi sono i suoi formaggi, che la “Vastedda” è di qui. Quindi, come dicevo prima, è come recitare Plinio. E mi rendo conto che il cameriere che recita Plinio può anche sembrare esagerato ma credetemi non è esagerato. Diciamo che i camerieri devono diventare i nostri promoter e quindi devono essere istruiti. Lasciamo perdere la scuola alberghiera dove non si insegna niente perché la prima cosa che va insegnata nella scuola alberghiera è il rapporto con il territorio, la produzione del territorio e oserei dire il linguaggio del territorio. Allora mi posso presentare al turista e parlargli con questo linguaggio. Se io parlo il linguaggio internazionale qui in una terra, che più benedette al mondo non ce n’è, che è uno dei crocevia della “sapienzialità” mondiale, qui dove sono passate civiltà, costumi, dove ci sono prodotti strepitosi e cucina fantastica, se io qui presento la cucina internazionale sono fuori di testa.
Io non posso venire qui e chiedere per cortesia fatemi mangiare a casa vostra però è questo ciò che io chiedo in Sicilia.
La mia più grande ambizione è venire a mangiare a casa vostra, in Sicilia, cioè la vostra cucina perché voi mangiate bene. Ma se in un ristorante siciliano io trovo la cucina internazionale non ci siamo più. Questo tipo di cultura deve sfondare, si deve rafforzare e dovete essere coscienti di una cosa: avere un pò più di autostima. Dico questo perché molti miei amici gastronomi quando parlano dei prodotti per la cucina, parlano della cucina della memoria e in questo concetto in genere ci fanno stare dentro delle stupidaggini senza senso. Io vengo da una zona in cui sul finire del ‘700, Napoleone, nella prima campagna d’Italia, partendo da Cairo Montenotte, prima di arrivare a Cherasco, dove firmò la pace con i Savoia, fece delle battaglie. Ora non c’è paese delle Langhe: savonesi, monregalesi e cuneensi che non abbia un dolce che si dice mangiato da Napoleone. Io non so se Napoleone faceva le guerre o mangiava come un bufalo. Ma cosa significa ciò? Significa che la cultura alimentare si presta a queste stupidaggini della memoria storica. La più bella, ora ve la dico io, perché è quella che ha detto Vissani ultimamente in televisione. Ha detto che la salsa che lui proponeva era già molto conosciuta nel Medioevo dal generale Radeski. Questo sta a dire come noi diamo importanza culturale alla gastronomia. In fondo questo emerito “coglione” che pure è un grande chef, ma si sente in dovere di fare certi accostamenti storici pur se sballati, dà un messaggio che, per esempio, in Francia, sarebbe finito su “Le Monde” e sarebbe stato distrutto gastronomicamente. Qui invece va tutto bene, dal sugo di Radeski al dolce di Napoleone, o alla stanza dove ha dormito Garibaldi. Garibaldi, per inciso, è un altro che io penso non abbia mai dormito così tanto nel mondo. Dovunque, c’è una finestra o una lapide che dice: “Qui ha dormito Garibaldi”. E capisco in certe regioni, ma quando trovo questo in Alto Adige mi vien da pensare: ma c’è mai venuto qui Garibaldi? Sorvoliamo. Voglio però dire che il discorso della memoria storica, della vera memoria storica della cucina è la “fame”. È questa l’unica vera memoria storica della cucina e noi dobbiamo dare dignità a questa memoria storica invece di vergognarci. Dovremmo esserne orgogliosi. I nostri nonni e in particolare le nostre nonne con la loro “sapienzialità” in un’economia di sussistenza, hanno fatto dei piatti che ancora oggi sono alla base della gastronomia italiana. È quella la memoria storica, e non sto parlando di Medio Evo ma di tre o quattro generazioni fa. Con la “sapienzialità” e con poco altro facevano dei monumenti e ancora oggi quei monumenti sono validi. Se non diamo dignità a questo, noi disprezziamo questa gente che ha lavorato sodo per mantenerci fino ad oggi. Se oggi i valori della società sono quelli dello spreco, noi dobbiamo andare in controtendenza. Siamo moderni quando affermiamo di essere orgogliosi di una cucina nata dalla sussistenza. È nella sussistenza che si aguzza l’ingegno e non nell’abbondanza e nello strafare. È in questa “sapienzialità” dell’uso delle erbe, dell’uso di prodotti molto semplici, che si è realizzata la grande cucina del territorio.
Questa cucina territoriale deve diventare il nostro patrimonio genetico.

Vi ringrazio per l’attenzione.

Però vi voglio dire ancora una cosa.

Guardate: 28 presidi sono pochi, ne servono altri ed è per questo che Slow-Food pur con l’orgoglio di quello che ha saputo fare deve diventare ancora più forte nel circuito virtuoso delle istituzioni, dei produttori e consumatori. Perciò date fiducia a questo movimento perché più si rafforza più vi porterà per il mondo. Oggi possiamo dire che i prodotti che sono qui, domani saranno in più parti del mondo grazie a Slow-Food. La vetrina del “salone del gusto” è ormai ritenuta una delle più prestigiose del mondo. Stanno per giungere non meno di tremila giornalisti. Guardate i risultati di questa inchiesta e vedrete che alcuni di questi prodotti si venderanno al “salone del gusto”. Cosa significa ciò? Significa che l’unione fa la forza. Se abbiamo la capacità di capire questo, mettiamo a valore la nostra economia e gli diamo la giusta dignità che si merita. Questa è la missione di Slow-Food.

Ancora un grazie per avermi ascoltato.

Ci sembra doveroso ricordare la presenza, con assaggi, di alcuni di questi presidi siciliani:

Bottarga di Favignana
Cappero di Favignana
Cappero di Salina
Cuddrireddri di Delia
Fragoline di Sciacca
Maiorchino
Mandorle di Noto
Manna delle Madonne
Pane di Castelvetrano
Pistacchio di Bronte
Provola delle Madonne
Provola delle Nebrodi
Ragusano
Vastedda del Belice

A cura di Rocco Lettieri per: www.simpatico-melograno.it