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 Fantastico Ben Ryé su eRobertParker.com
 06/02/2016 19.34.24

Ben Ryé, il Passito di Pantelleria prodotto da Donnafugata, è il protagonista

di un grande reportage pubblicato dalla prestigiosa testata statunitense.

Uno straordinario riconoscimento al vino icona della viticoltura eroica di Pantelleria.



Ĕ un Ben Ryè stellare quello tratteggiato da Monica Larner, attraverso una degustazione di ben 22 annate della prestigiosa etichetta di Donnafugata. La giornalista americana, responsabile per l’Italia della testata The Wine Advocate fondata e diretta dal critico Robert Parker, ha così avuto modo di realizzare un reportage senza precedenti per un vino dolce italiano.

In assaggio tutte le annate disponibili del prodigioso Ben Ryé, rappresentative di un quarto di secolo di impegno produttivo: dalla prima, quella del 1989 a quella a breve sul mercato, la 2013. Da vertigine i punteggi ottenuti da quasi tutte le bottiglie degustate, tra cui spiccano tre annate con 95/100 (1992, 2005 e 2006), il 96/100 attribuito al 2010, e il 97/100 al 2008. Svetta infine un superlativo 98/100 al Ben Ryé annata 2001, “un vino da knockout, che rappresenta il vertice della qualità per un vino dolce. Da bere fino al 2045.




Il caveau di Donnafugata si era aperto ad aprile del 2015, rendendo disponibile un tesoro di bottiglie alcune delle quali ormai introvabili, e gelosamente conservate nelle cantine storiche dell’azienda a Marsala.

Il servizio giornalistico appena pubblicato su www.erobertparker.com, racconta l'epopea di un'azienda che ha creduto sino in fondo al valore della viticoltura eroica di Pantelleria. Un’isola dove, a condizioni estreme quali il vento incessante e i terreni in forte pendenza, la sapienza secolare del contadino Pantesco ha risposto con i terrazzamenti, i muretti a secco e la pratica agricola della vite ad alberello, recentemente riconosciuta patrimonio Unesco. Visitando l’isola più volte, esplorando i vigneti di Zibibbo e le tecniche di produzione del Passito di Pantelleria, Monica Larner ha colto il valore profondo di una filosofia produttiva che ha avuto in Giacomo Rallo, fondatore di Donnafugata, il suo pioniere: produrre un vino dolce naturale di grande concentrazione e ricchezza aromatica, che avesse anche una sorprendente freschezza ed eleganza.



Nasce così il Ben Ryé - dall’arabo figlio del vento - la cui longevità e costanza qualitativa evidenziate dal reportage, permettono di inserirlo ai vertici dei più grandi vini dolci del mondo insieme ai migliori Sauternes francesi, Tokaji ungheresi e Icewine. Nel suo servizio la giornalista americana, che vive in Italia dall’età di 11 anni, riconosce anche di avere una predilezione per la Sicilia a cui recentemente ha dedicato una Love Letter raccontando come proprio qui abbia mosso i primi passi della propria folgorante carriera che l’ha portata a raccontare l’Italia ad una platea di milioni di wine-lovers nel mondo.




Antonio Rallo wine-maker e quinta generazione di questa storica famiglia del vino, afferma: “Non avevamo mai realizzato una degustazione così completa; la straordinaria longevità delle annate più vecchie ha superato le nostre migliori aspettative. Il Ben Ryé è un vino che riesce sempre ad emozionarci e a ripagare tutte le nostre fatiche.”

“Accogliamo questi riconoscimenti con grande gioia - dichiara José Rallo, volto e voce di Donnafugata - e sentiamo tutta la responsabilità di dover continuare ad impegnarci per onorarli.”



Oggi le soddisfazioni di poter avere più di 25 annate di questo

figlio del Vento, il Ben Ryé.

Ma le fatiche per arrivarci in quanti le conoscono?

Qui di seguito propongo ai lettori de “IL SIMPATICO” una mia intervista fatta proprio a Pantelleria al signor Giacomo Rallo. Era il 5 Maggio del 2002. Ben 13 anni fa. E Giacomo, lungimirante, ha visto giusto.



D) Dott. Rallo, ci troviamo a Pantelleria, Piano di Ghirlanda, di fronte ad uno stupendo panorama di vigneti impiantati a Moscato. Una domanda è d’obbligo: ma perché " Donnafugata " ha cercato la fuga dallo Rallo azienda vinicola storica?

R) Per la verità è una fuga che non ho cercato io ma tutta la mia famiglia, compreso me. Eravamo sette cugini e tranne me, nessuno aveva il “bacillo” del vino. Noi avevamo una realtà fondiaria patrimoniale consistente e un affare poverissimo, che era quello del Marsala, legato ad un prodotto obsoleto che non recepiva l’elasticità di un adeguato investimento di comunicazione e marketing. Allora, tutti insieme, abbiamo deciso di venirne fuori; eravamo negli anni ‘87/’88. Da lì si è realizzato l’affare Rallo, nel senso che si è venduto la parte mobiliare (marchio, scorte, attrezzature industriali) ma abbiamo conservato la parte fondiaria e immobiliare e poi si è passati al secondo stadio che è stato quello di un'imposizione amorevole e sentimentale significativa delle mie cugine che mi hanno voluto passare le vecchie cantine Rallo del 1851 dove già insisteva un affitto di Donnafugata. Da quel momento inizia la grande avventura Donnafugata che era già sul mercato da 4 o 5 anni, ma più che altro come scelta elitaria di marketing, un affare complessivo fatto di produzione, di trasformazione e di distribuzione.

D) Ma chi era questa Donnafugata?

R) Questa “donna in fuga”, Donnafugata, appunto, è quella parte storica delle varie donnefugate siciliane, che è legata ad una fuga reale, effettiva che è quella della regina Carolina di Napoli che si era rifugiata in un lembo del Regno delle due Sicilie, appunto in Sicilia. Sbarcata a Palermo, dopo essere fuggita da Napoli per l’arrivo delle truppe napoleoniche e, temendo a Palermo il Vicerè di allora, una ribellione liberale, affidò la regina in fuga al Principe Filangeri di Cutò che aveva 30.000 ettari in Sicilia, pregandolo di portarla ben nascosta in un suo feudo; la scelta cadde sul feudo di Santa Margherita del Belice, Contessa Entellina. Praticamente quel comprensorio, che fu definito di Donnafugata, è un comprensorio di 9.600 ettari che oggi costituisce in gran parte il territorio geografico amministrativo di Santa Margherita del Belice, Contessa Entellina, e per buona parte di Sambuca, Montereale e Montevago.



D) Questa DOC che è stata data a Contessa Entellina ha veramente qualcosa di storico?

R) La DOC di Contessa Entellina ha radici storiche che vengono da molto ma molto lontano, più lontano delle vicende del Regno delle due Sicilie, perché già sette secoli prima di Cristo, noi abbiamo avuto proprio moneta battuta con l’effige dell’uva ed eravamo nel periodo degli Elimi, una delle popolazioni più antiche che ci siano state in Sicilia. Sono monete che vengono conservate nei musei di Palermo e di Vienna. Da questo punto di vista, la tradizione di Contessa Entellina ha un supporto storico di grande credibilità ma ritengo che il motivo che è stato molto, ma molto convincente, è che il Comitato Nazionale Vini di Origine riconoscesse questa DOC nella sua validità pratica e nella sua configurabilità di accettabilità legislativa per il fatto che da circa 30 anni la famiglia Rallo acquistava, trasformava e vendeva proprio i vini del territorio di Contessa Entellina.




D) Questo è dunque l'aggancio con Donnafugata che nasce con la famiglia di Giacomo Rallo. Ma la Sua signora Gabriella, che sappiamo avere una tradizione di origine storica, con il suo cognome Martinez tradisce una provenienza spagnola?

R) Si, mia moglie possiamo dire, rappresenta la parte nobile della famiglia, che ha un legame molto più lungo, molto più serio, molto più concreto da un punto di vista storico rispetto a noi Rallo che siamo invece borghesi. Noi siamo stati mercanti nel passato, infatti, quelle terre sono state acquistate dall’ultimo rampollo dei principi Filangieri di Cutò e sono diventate della famiglia di mia moglie che è una Anca Martinez, appunto una quarantina di anni fa. Dopo di che il matrimonio ha portato ad una sinergia interessantissima, tra i valori culturali che erano legati soprattutto a una capacità e ad un amore della gestione della terra e dei valori di queste nostre terre siciliane, con valori che invece erano legati ad una cultura borghese che portava ad un soddisfacimento nell’impresa attraverso la realizzazione di un valore aggiunto che andasse molto, ma molto al di là di quello che poteva essere il reddito agricolo.



D) Dunque una bellissima storia per raccontare ora la storia di Donnafugata in Rallo!

R) Diciamo che io ero stato prima il direttore di produzione per cinque o sei anni e poi l'export manager del wine-businnes della mia famiglia che era fatto soprattutto e quasi esclusivamente di Marsala, vini di Marsala. Solo che arrivato sui quarant’anni mi ero anche un pò stufato di un prodotto obsoleto e stanco, un prodotto nobilissimo, ma non trovava respiro necessario perché afflitto da una concorrenza spietata e afflitto soprattutto da pesi che erano di impegni finanziari per un verso e di una legislazione troppo liberale che non risultava per niente protettiva né nei canoni di produzione né di modi e di tempi di commercializzazione adeguati. Tutto questo mi portò ad una scelta di fondo che io finii per maturare durante le mie lunghe esperienze di lavoro negli Stati Uniti e mi volli legare decisamente ad una produzione che consentisse elasticità, soprattutto consentisse ampi margini all'impresa fondata sulla fantasia e ad una interpretazione più immediata del mercato della qualità.




D) Riassumendo, nasce Donnafugata, ma le forze familiari restano molto legate, a partire da papà Giacomo, dalla mamma Gabriella, dalla figlia Josè e dal figlio Antonio e tutto l'entourage che adesso vincolano strettamente questa Azienda a vini famosi, quali “Mille e una notte” e “Ben Ryé”; ma possiamo parlare delle prime esperienze?

R) Diciamo che non esiste piccola o grande fortuna che non sia legata a una gestione positiva e anche un poco fortunata delle risorse umane. Ecco, la mia azienda è un vero affare di famiglia e questo è estremamente importante nel momento in cui si decide di impegnarsi nel mondo del vino di qualità. Mia moglie e i miei figli sono tutti integrati nell’Azienda e compongono praticamente un’espressione avanzata ed accurata di “management” alla moda internazionale. Questo è molto importante. Per quanto riguarda l’avvio dell’affare Donnafugata, debbo innanzitutto dire che è partito con un mio staff che proveniva per lo più dalla vecchia Rallo e questo ha costituito un punto di forza e di debolezza ad un tempo, dovendomi impegnare in un affare che invece aveva tutte le connotazioni di un affare moderno e anche un pò rivoluzionario. Ho trovato persone assolutamente fedeli da un punto di vista umano, ma ho trovato anche delle remore, delle resistenze, che arrivati ad un certo punto, hanno anche impedito un certo tipo di crescita. Ma è indubbio che nei primi cinque anni, diciamo dall’84 all’89 ho trovato un sostegno che posso definire senz’altro positivo. Fiducie incondizionate e senza imposizioni dall’alto. Dopo di ché ho finito per realizzare che, un progetto di vino di qualità, soprattutto in Sicilia, dove esistono due tipi di resistenze storiche che debbono essere senz’altro affrontate ma anche debellate, e queste sono: la sclerosi culturale e la presunzione, cosa voglio dire l’un per l’altro: “Praticamente il nostro microclima, che è favoloso, ci fa pensare di essere molto vicini a Dio e che non si ha bisogno di niente, soprattutto non si ha bisogno di misurarsi sul piano della sfida culturale, quindi di entrare in un tipo crescita che è legato alla comparazione e alla competitività culturale con aree che ci stanno attorno, e questo è un fatto assolutamente negativo. Tutto questo mi ha portato ad una riflessione finale ultima, che è stata forse la mia grande fortuna: quella di realizzare che il successo nel mondo dei vini di qualità, in un mondo che poteva venire assolutamente da una rivoluzione culturale, poteva essere affidato solo e unicamente ai giovani. Bene, io oggi sessantenne, mi ritrovo in azienda con un solo cinquantenne sulle spalle, comunque un laureato che parla quasi correttamente le principali lingue straniere che mi aiuta sia nel controllo burocratico quotidiano, ma più che altro nella gestione dell’export; dopo di ché, la persona più anziana in famiglia è mia figlia, Josè, che ha trentacinque anni; non me ne voglia se svelo la sua età, ma è una figlia stupenda. Josè ha una testa un pò magica che sviluppa tutta un’azione di controllo di gestione fino alle pubbliche relazioni. Essendo un affare di famiglia, noi teniamo molto a comunicare, a trasmettere i valori del nostro affare attraverso la comunicazione diretta che viene appunto dal “management” aziendale che è soprattutto fatto da espressioni della famiglia imprenditoriale quale noi siamo con mia moglie e con mio figlio Antonio che sta crescendo moltissimo, in ogni campo dell’azienda”.



D) E' risaputo che la vostra azienda sia stata una delle prime in Sicilia a sposare la cultura del “management” e delle P.R. perché forse, qui, in Sicilia, non si era mai pensato che la qualità viaggia di pari passo con una certa immagine; possiamo fare qualità ma se poi non viene comunicata, questa qualità resta ferma.

R) Certo, ma qui non mi costa sacrificio ricordare quello che i francesi definiscono “i pilastri” dell'affare del vino di qualità: una tradizione e una famiglia per la qualità. Ecco, noi abbiamo cercato di trovare in noi stessi quei valori dove risultava insufficiente farli evolvere per approdare appunto a un tipo di coniugazione stretta fra questi tre valori: famiglia, tradizione e qualità; una trilogia per fare mercato. E devo dire che in questo tipo di azione io ci ho messo tutto il mio credo, la mia fede; ne ho fatto una scelta manageriale di filosofia imprenditoriale, ma ho trovato anche una persona straordinaria come mia moglie, che ha interpretato naturalmente, spontaneamente, a perfezione il ruolo della grande comunicatrice.

D) Tornando ai prodotti, siete partiti con l’idea di fare vini di qualità sfruttando le risorse siciliane?

R) Devo dire che all’inizio la mia preoccupazione era quella di fare commercio, cioè di trovarci uno spazio in un mercato che è ancora poco effervescente e poco incline ad accettare il vino siciliano, soprattutto avendo presenze leader mondiali come Corvo e Regaleali. Quindi noi ci siamo inventati il nostro bianco che era un prodotto leggermente diverso da Corvo e da Regaleali ed era un prodotto fresco, giovane, che era proprio una scelta di vino non siciliano, comunicato internazionalmente da un'azienda che invece come immagine risultava assolutamente e culturalmente molto sicula, molto siciliana. Ecco, ci siamo inventati questo vino e questa esperienza è durata circa sette anni. Nel ‘94 siamo arrivati con la vecchia, stanca, stereotipata offerta siciliana che poteva essere troppo facilmente marchiata di povertà, cioè: un listino che era fatto di bianco, rosato e rosso. Che è un’offerta miseranda, se vogliamo! Solo che il marchio Donnafugata già viaggiava a certi livelli di curiosità, di interesse, di suggestione, per cui si riusciva a vendere anche un bianco, un rosato e un rosso. Anche se sul mercato ci confrontavamo con aziende che potevano essere friulane o toscane che avevano un’offerta di 15 o 20 vini tutti di personalità e caratterizzazione diversa, che facevano curiosità anche diverse. Ma è li che abbiamo inventato la grande svolta, cioè il balzo in avanti di Donnafugata come azienda accreditabile, come azienda che produce sempre più qualità, ma non tanto a livello di vino siciliano, quanto sempre di più a livello comparativo e competitivo internazionale.




D) E quindi siamo arrivati a vini di vitigni diversi?

R) Intanto siamo arrivati ad una offerta più ampia di vini sul nostro listino, passando da un travaglio che ci ha portati ad una interpretazione e a una lettura di mercato che è molto nostra e che è legata praticamente allo scavalcamento dei termini dialettici in cui si è posto il problema tra valorizzazione dei vitigni autoctoni o valorizzazione e inserimento dei vitigni nobili internazionali, nel senso che una via doveva negare l’altra. Noi abbiamo riflettuto a lungo su questi termini così lontani e antitetici per arrivare ad una nostra conclusione: la Sicilia, col suo sole, deve dare il meglio che può dare. Ĕ un problema, se mai, di tempi per far crescere un certo tipo di scelte, perché queste scelte siano assolutamente credibili. Voglio dire che è assurdo negare la possibilità di fare un Cabernet o uno Chardonnay siciliano nel momento in cui si percepisce che si può fare in questa fascia solare grandi vini. Forse a noi il limite sembra solo uno: che andare a presentare un Cabernet in purezza con una vigna di 2 anni o di 3 anni è avventuroso e gratuito e anche immodesto, diciamo così, ma andare a presentare, come noi possiamo fare oggi, un Cabernet di una vigna radicata di 10 anni, vuol dire in termini concreti, reali, di poter presentare oggi un grandissimo Cabernet, uno dei migliori che si possano fare al mondo e così vale anche per lo Chardonnay. Ma noi, di primo acchito, proprio per questo limite, perché avevamo Cabernet, Chardonnay, Sauvignon blanc, Merlot troppo giovani, abbiamo preferito seguire una via che è risultata più assortita. Intanto non abbiamo mai tralasciato la via della valorizzazione dei vitigni autoctoni, per noi pilastri della nostra azienda quali risultavano essere l’Ansonica tra i bianchi e il Nero d’Avola tra i rossi che sono due vitigni da cui otteniamo già da anni vini interessantissimi quali il Vigna di Gabri, La Fuga, il Chiarandà, e tra i rossi l’Angheli, un vino moderno da gusto internazionale. Da uvaggi dalla personalità assolutamente nuova, sfruttato il taglio innovativo che veniva fuori dai matrimoni di amore dei Nero d’Avola con il Cabernet Sauvignon è nato il nostro Tancredi Contessa Entellina DOC, un vino che è premiato ormai ovunque e dappertutto, che ha collezionato una marea di riconoscimenti solo e unicamente in concorsi internazionali. Questo per dire che applicare una larga dose di quella fantasia che non è solo peculiare della Sicilia, ma che è tipica italiana è un fatto estremamente positivo. Ĕ stato importante poter presentare sul mercato vini che hanno creato curiosità non gratuita, dovuta magari ad un’indicazione grafica assolutamente accattivante quale potrebbe essere una bell’etichetta, ma perché c’erano indicazioni accattivanti sul piano organolettico che hanno affascinato il consumatore anche più acculturato. Ecco, noi abbiamo ora un quadro di uno spettro di azione che è abbastanza vasto, che ci consente di presentare vini da vitigni autoctoni, vini da matrimoni d'amore con vitigni internazionali e vini da vitigni internazionali.


D) Arriviamo all’ultima trovata che è stata l'etichetta più sensazionale e più accattivante del Vinitaly 1999: “Mille e una notte”. Bottiglie che sono state vendute ancora prima della presentazione ufficiale. Ĕ vero?

R) Certo, è tutto vero. “Mille e una notte” rappresenta il frutto di una sinergia manageriale che è legata appunto all’equilibrio dell’affare famiglia, per cui abbiamo avuto la scelta del nome e dell’etichetta legata soprattutto a mia moglie che è una donna notoriamente di grande fantasia, e il vino che abbiamo voluto moltissimo noi del management del commercio perché pensavamo alla necessità di offrire al mercato, in un momento in cui si erano create grandi curiosità sul Nero d’Avola, un vino che poggiasse soprattutto la sua forza, la sua struttura su questo vitigno straordinario che è ancora tutto da scoprire. Ci trovavamo ad avere una vigna vecchia, con molto alberello e un pò di filari e ci siamo avviati ad una sperimentazione, che non è durata neanche poi tanto tempo e abbiamo ottenuto un vino dal risultato sorprendente. In quel momento ci siamo trovati a riflettere non soltanto sul piano delle risultanze tecnico-produttive, ma anche sul piano delle proiezioni che potessero venire fuori, da un’interpretazione legittima, consequenziale di una lettura di marketing attento e moderno e ci siamo detti “abbiamo il vino del 2.000” . E qui ha calzato molto bene l’intuizione di mia moglie di chiamare questo vino “Mille e una notte”, anche se per certi versi qualcuno può pensare che sia un nome troppo di fantasia, che ha poco da vedere col vino, è troppo mediterraneo e viene fuori da una cultura araba. Insomma, cosa dobbiamo dire? La Sicilia è una sintesi di culture straordinarie e qui mi piace ricordare una massima che è stata estrapolata dal “Viaggio in Italia” di quel grandissimo poeta romantico tedesco che è stato Goethe, il quale asserisce molto semplicemente: “Visitare l’Italia senza visitare la Sicilia è come non aver visitato per niente l’Italia, perché qui in Sicilia c’è tutto, c’è l'inizio di tutto”. Questo, a parte le esagerazioni che possono venir fuori dall’emotività dell’anima di questo grande poeta, indubbiamente ha una base fondata che realmente in Sicilia ci sono delle radici profondissime culturali che rappresentano grandi sintesi della cultura del bacino mediterraneo che bisogna tenere presente, cioè, a noi tocca prendere conoscenza e coscienza delle grandi risorse naturali, ma imporci un modo di riflettere, un modo di crescere che culturalmente ci porti al rispetto massimo di ciò che è stata la Sicilia attraverso i secoli. Noi siciliani dobbiamo crescere ancora enormemente culturalmente per arrivare a quelle necessarie sensibilità, per arrivare all'interpretazione più immediata, più autentica, dei grandi valori naturali di quest’Isola.



D) Nella spasmodica ricerca della qualità, Donnafugata è arrivata addirittura a raccogliere le uve di notte. Forse in California veniva fatta questo tipo di raccolta, ma in Italia e soprattutto in Sicilia, sicuramente siete gli unici o quanto meno i primi.

R) Ho detto un momento fa che c’è un segreto in Donnafugata: a parte gli sforzi di ognuno di noi di crescere nell’ambito di una cultura che sia comparata a livello internazionale e questo successo è legato soprattutto a una scelta di fondo, abbiamo voluto legare il futuro e lo sviluppo dell’azienda ai giovani, all’impegno dei giovani. Anche questa esperienza della vendemmia notturna è un’esperienza giovanile, di una scelta di freschezza culturale legata a uno dei nostri enologi, Vincenzo Bàmbina, che dopo aver lungamente viaggiato in tutto il mondo, sostenuto e incoraggiato dall’azienda, andò a cogliere in Australia questa realtà corrente della vendemmia notturna, perché di giorno le loro temperature sono proibitive, ma da noi non è da meno. Solo che questi australiani la vendemmia notturna la fanno meccanicamente e invece Bàmbina si è dovuto inventare la vendemmia notturna manuale con la scelta anche dei grappoli per approdare a una produzione di Chardonnay che, diciamolo francamente, è mostruosa, è fuori dall'ordinario e che a noi sta servendo moltissimo per convertire orde di consumatori renitenti fino a poco tempo fa alla qualità del vino siciliano, non semplicemente a Donnafugata.



D) Parliamo allora dell’ultima “pazzìa” di Casa Donnafugata: Pantelleria!!!

Il vostro “Ben Ryé Passito di Pantelleria”, appena partiti è già stato un prodotto che si è inserito tra i grandi vini di questa “perla nera” del Mediterraneo?

R) Molte erano le problematiche di Pantelleria legate ad un vitigno, il Moscato d’Alessandria o Zibibbo, quindi un’uva regionale, che qui credo abbia trovato la massima espressione determinata da tantissimi fattori pedoclimatici, dove si riuniscono tutti insieme: vento, aria, sole, terreno e uomo.



D) Perché quindi avete voluto complicarvi la vita con questo “figlio del vento”?

R) Diciamo intanto che Pantelleria ha peculiarità che rende unico questo Moscato, che ha poco a che vedere con gli altri Moscato, perché è il vero Moscato di Alessandria, che a Pantelleria vive con una dicotomia tra risorse umane e risorse naturali. Le risorse naturali qui sono gioielli, oro biondo da poter mettere in bottiglia. Naturalmente sono risorse che richiedono una interpretazione autentica che per noi vuol dire rispetto della naturalità, una interpretazione dei processi di produzione, legati a moduli che non debbono tradire il verso ecologico e quello biologico. Questo è il nostro modo di vedere l’isola, una produzione in un’isola fatta di sole, di vento, di grandi concentrazioni aromatiche, che non può essere affidata a soluzioni industriali, deve essere invece, non dico costretta, ma orientata ad una cultura di produzione, della trasformazione e della commercializzazione legata a valori autentici, grandi, immensi, di una natura senza confini, da un punto di vista dei valori di corredo aromatico e di profumi. Ecco, noi ci sentiamo di poter dire che siamo dentro questo tipo di scheda e ne stiamo cogliendo i frutti. Oggi le nostre bottiglie di Moscato Passito, vanno in giro per il mondo con un prezzo più vicino a quelli del Sauternes e la nostra produzione è assolutamente insufficiente; noi affrontiamo il mercato sì e no col 50% della produzione rispetto alla domanda. Con questa richiesta, ogni anno, in sei mesi esauriamo le nostre provviste e ripartiamo con programmi sempre più impegnativi per la vendemmia susseguente.



D) Ma ci sono motivi per poter aumentare la produzione visto e considerato che a Pantelleria si fa fatica ad operare in termini di persone, di culture umane ?

R) Nell’isola, e lo dicevo prima, i problemi sono tanti. Intanto parliamo di una disaffezione all’agricoltura che è venuta fuori dopo anni e anni di assistenzialismo gratuito. Qui bisogna costruire una mentalità imprenditoriale innanzitutto a livello di viticoltura. Per parlare con serietà di queste problematiche c’é bisogno che chiunque arrivi a Pantelleria, finisca per realizzare che quest’isola deve essere necessariamente l’isola della qualità suprema. Solo attraverso la qualità suprema possiamo avere quei ritorni che, possono, diciamolo chiaramente, fare la fortuna e la ricchezza della filiera. Qui tutti potrebbero star bene e vivere degnamente. Deve stare bene il viticoltore, il trasformatore, il commerciante. Se queste realtà non possono convivere, allora il futuro di Pantelleria, non dico che sarà negativo, ma sarà limitato comunque .

D) Un ultimo pensiero su Pantelleria: cosa vuol raccontarci di questa isola che è stata definita “ dal cuore di pietra” ?

R) Pantelleria sarebbe di una generosità incredibile, cioè qui ci sarebbe da leggere, da individuare quel tipo di discrepanza tra ricchezza della natura e sprovvedutezza delle menti dell’uomo. Il Pantesco affronta questa natura in modo inadeguato. Ci vorrebbe più sensibilità per interpretare in modo autentico e in modo reale per fare mercato della natura di Pantelleria. Bisogna che il Pantesco innanzitutto cresca, ma la cosa più importante è che chi viene fuori dall’isola di Pantelleria non porti una mentalità speculativa, ma porti anche un intervento fondato sulla generosità culturale. Ĕ necessario che a Pantelleria si arrivi dotati di una sensibilità che porti ad avere molto rispetto di questa natura e una capacità di trasmettere nel modo più adeguato i valori immensi di “questa natura”. Noi, ad esempio, siamo arrivati a produrre un vino passito le cui valenze vengono riconosciute nei più importanti concorsi internazionali. Il nostro Passito Ben Ryé, in 10 anni ha conseguito qualcosa come 30 riconoscimenti, tutti ai massimi livelli, fino ad arrivare al grande riconoscimento del CIVART del ‘97 al Vinexpò di Bordeaux, quando il nostro Passito 1992 è stato riconosciuto come “il miglior vino naturale dolce al mondo” su 490 altri campioni. Al primo posto figuravamo noi e dopo di noi, dal 2° al 10 posto figuravano Sauternes, che non sono certamente vini sconosciuti, poi un Tokaj ungherese e un EisWine della Germania. Chiaramente non può essere letto in un riconoscimento lo sforzo di Donnafugata, ma il riconoscimento profondo e autentico delle potenzialità di quest’isola. Cioè, diciamo anche che noi sette anni fa, abbiamo fatto intervenire, per delle correzioni necessarie, nel nostro processo di produzione del passito, un grande tecnico del bordolese, un tecnico che operava con i vini del Sauternese, che ci ha insegnato una regola semplicissima per evitare la presenza di caramello e la presenza di ossidazione nel passito. Da quel momento il nostro passito non è diventato semplicemente una curiosità, come tante curiosità, che vengono ogni anno fuori dall’isola. Abbiamo creato un modello di vino naturale dolce, di grande armonia e soprattutto di grande eleganza. Questo è il vero motivo di successo di questo vino. Mi auguro che tantissimi altri possano seguire la nostra strada, perché sappiamo bene che il successo di un territorio, di un’area, difficilmente può restare legato ad una o due aziende. Il problema è sempre quello di far crescere il contesto imprenditoriale di tutta quell’area. Cioè, ci vogliono più espressioni. Mi auguro, sinceramente, che i produttori di Pantelleria possano diventare molti di più di quelli attuali; produttori di rilievo e di grande capacità di comunicazione, di produzione e di marketing. Il vino da solo non cresce. Il vino quando è grande va sostenuto, va fatto crescere a livello commerciale e a livello conoscitivo sia dal lato degustativo che dal lato propositivo di conoscenza del lavoro che c’è dietro, gli sforzi che si fanno per realizzarlo e per continuare a produrlo così buono”.



Intervista a cura di Rocco Lettieri




Addetto stampa:

Nando Calaciura

calaciura@granviasc.it

cell. 338 3229837




Per informazioni:

Baldo M. Palermo

baldo.palermo@donnafugata.it

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