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 Il Raboso Piave! Scopriamolo insieme.
 21/05/2004 7.57.26

Vino abbandonato, da abbandonare o vino raro?

Articolo da “IL SIMPATICO” n. 1 – anno III°, gennaio 1987 di Ivan Cescon

(Pubblico volentieri un articolo sul “RABOSO” dell’amica e sommelier (romana/tedesca) Elke Schmettow facendo precedere al suo questo scritto, questo, per me, interessante documento del compianto prof. Cescon, di certo il più grande estimatore di questo vino che ora sta assurgendo a prodotto d’elite).

Silone nel suo libro Fontamara (1930) scriveva: «lasciamo ad ognuno il diritto dì raccontare i fatti suoi a modo suo» ed io, confortato da questo pensiero chiedo ai lettori la licenza di esprimere la mia opinione sul Raboso Piave, Comincerò con il domandare perdono per i vari errori commessi, poi descriverò alcuni casi a dir poco esilaranti, infine accennerò al mio intento di dare una seconda vita a questo vino che per essere buono dovrà divenire sempre più raro.
Io sono legato al Raboso Piave da un amore ancestrale, quasi morboso. Ricordo quella vite di Raboso Piave — a pochi passi dalla casa paterna sita in RAI (TV) - sulla quale facevo la pipì ogni giorno e d'estate portavo, con un secchio, l'acqua del fosso vicino, al fine di vedere la pianta rigogliosa e generosa in grappoli d'uva alla vigilia della vendemmia. Ricordo mio padre che mi faceva pigiare con i piedi l'uva nel tino, per spillare il vino a Natale, per assaggiarlo a Pasqua e per venderlo a giugno ai commercianti del Collio o di Cremona.

Ricordo quel dì di fine agosto del 1954, quando ho fermato Bruno De Polo, che con la sua Mercedes percorreva la strada polverosa di Rai e gli ho chiesto, rivolto alla mia uva Raboso: dottore, come posso fare da quest'uva un buon vino? E De Polo guardandomi con i suoi occhi fulminanti sotto due folte sopracciglia nervose, mi ha dato un consiglio d'oro. Consiglio che, messo in pratica ha segnato il via a quella che da allora sarà chiamata Enoteca I. Cescon - RAI (Treviso).

Vivaddio, il Raboso di Cescon era buono. Quell'etichetta scritta a mano da una signorina poco più che ventenne, che poi diventerà mia moglie, quel nastrino rosso che annodava intorno al collo della bottiglia un pezzo di tralcio di vite rendevano la bottiglia simpatica ed attraente.

C. Boano con il suo articolo «Il Raboso del Miracolo che arriva dal Piave» ha fatto pervenire le bottigliette di Raboso - così le chiamava mia madre - sulla tavola dei più prestigiosi intenditori italiani. I cavalieri di Vittorio Veneto erano orgogliosi di rivivere i ricordi della guerra sul PIAVE, fiume sacro della patria. Era l'anno 1968: gli studenti contestavano i professori, un biochimico contestava... i produttori di Raboso, rossissi-mo, vino da taglio.

C'era euforia tra i viticoltori: tutti bruciavano dal desiderio di avere vini DOC e anch'io, inviando a Mario Soldati tre bottiglie di Raboso, manifestavo l'intento di fregiare il mio vino con la magica scritta: Denominazione di Origine Controllata.

Ma il saggio scrittore nel rispondere ha tra l'altro detto: «Ebbene, ho una paura matta che quando la denominazione verrà, il Raboso, dopo qualche tempo, e perfino il Raboso Cescon non sarà più così buono. L'epoca arcaica è sempre la vetta di ogni arte...». Il dott. Mario Soldati aveva ragione.

I contadini del Piave producevano Raboso a 250-300 e più quintali per ettaro, i commercianti imbottigliavano Raboso e lo mettevano in commercio al prezzo dell'acqua colorata (per fortuna alcuni sono falliti).

Le viti a produzione indiretta (per innesto) sostituivano quelle a produzione diretta (senza innesto) con scadimento della qualità del vino Raboso.
L. Bonotto, dottore in agraria e saggio viticultore, dimostrava con prove in cantina la differenza di qualità tra i due vini provenienti da viti per innesto e senza innesto. Nessuno voleva ascoltarlo, perché bisognava produrre quintali di uva per riempire le vasche inox da 500-1000 quintali. La chimica... infuriava, l'azoto, il fosforo, il potassio, l'urea correvano a fiumi per i campi. I contadini erano come gatte in calore nel mese di febbraio. II solfato di rame era messo al bando forse perché importato dal Cile, stato fascista. Gli acuprici trionfavano.

Meno lavoro, foglie senza malattie, uva sana. Sana sì, ma ad ottobre non maturava! A settembre gli ispettori dei consorzi e i tecnici agrari scattavano fotografie da manuale; ma a fine ottobre l'uva era mezza bianca, mezza rossa. Il balbo (apparecchio per dosare gli zuccheri) non saliva, era al di sotto del minimo cioè del valore legale per far sì che il mosto diventasse vino!

E la solforosa? Tanta da far impallidire le bucce. Anni fa ero solito dire che il sindacalista Bonomi aveva tolto la «bandiera rossa» dai filari delle viti e vi aveva introdotto «il bianco fiore», simbolo d'amore (amore per la chimica s'intende).

Anch'io ne ho sofferto e ho perso in qualità. I contadini del Piave mi davano perdente, lontano dal progresso e dal benessere; per loro ero obsoleto. Ho tentato la via della comprensione, ma con esito negativo. Mi dicevano: torni a Milano, professore, e lasci a noi fare il vino secondo la tecnologia moderna, molto remunerativa.

A scopo illustrativo riporto tre esempi. L'addetto alla irrorazione delle viti è mancato all'appuntamento settimanale. Come è giunto a distanza di 15 giorni, ne ho chiesto il motivo. Ecco la risposta: con... (e mi ha detto il nome dell'anticrittogamico) c'è risparmio, si fa un trattamento ogni due settimane! Meno spese, foglie più belle, uva tutta sana.

E passo al secondo, più significativo. Mi sono contrattualmente accordato con un viticoltore serio, onesto, galantuomo in questi termini: «Somministrerò solo letame, eliminerò i concimi chimici. Tratterò le viti con poltiglia bordolese (solfato di rame), non ricorrerò a diserbanti chimici... acquisterò tutta l'uva ad un prezzo superiore a quello di mercato per compensare l'impegno e la minor produzione...». Ma le tentazioni della chimica, la soffiatina all'orecchio da parte dei periti agrari, il maggior rendimento per ettaro, il più facile guadagno erano... come la brezza primaverile, che ti invita a spogliarti per espirarla, ma ti fa correre il rischio di prendere una bronchite!

Riporto infine il terzo caso datato ottobre '85. Al contadino che lavora — per volontà del mio defunto padre—la terra a mezzadria—ho chiesto la vendemmia selezionata. Da contadino si è opposto dicendo: cose da pazzi, la cantina sociale non mi fa far questo lavoro. Ho insistito e come compromesso il contadino ha proposto la divisione dei filari in due gruppi: uno per lui con vendemmia senza scelta e con consegna in cantina sociale; il secondo gruppo di filari per me con la selezione delle uve mature da quelle un pò rossicce. Non descrivo altri casi, ma se il lettore verrà a trovarmi in cantina a Campodipietra, tra un assaggio e un altro forse la lingua si scioglierà più della penna confermando il vecchio detto: in vino veritas.

Non credevo ai miei occhi quando anni fa gli amici mi dicevano: prof. Cescon, il tuo vino Raboso non è più buono come una volta! Non credevo, proprio come capita al marito che non crede all'amico che gli dice che la moglie lo tradisce se non la coglie in dolce unione. Ultimamente ho rinunciato ad ore di studio, alla pace della mia famiglia, alle ferie per fare del mio vino Raboso, un vino raro, per dargli una seconda vita. Proprio come mi aveva scritto quel geniale dottore di nome Mario Soldati, che chiudeva il suo scritto: «L'epoca arcaica è sempre la vetta di ogni arte o anche l'epoca decadente quando il ciclo si chiude per riaprirsi e quando nella dissoluzione, ricomincia un'inconsapevole nuova maniera. Può anche darsi, per il Raboso che si tratti di questa seconda vita».

Vino raro

Il Raboso Piave può restare un buon vino, ma senza titoli nobiliari o dignità cardinalizie. Al tastevin dell'elegante sommelier, preferisce «el bozzon de un litro, el bozzon de mezzo, el bozzon de quarto ». È vino ad espressione semplice. La pianta della vite vive all'ombra della stalla, respira l'odore del liquame, si nutre di letame. Mal sopporta l'amicizia dei potenti sussidi chimici: superfosfati, concimi ternari, ditiocarbammati... Minacciata dal ragno rosso, preferisce chiedere aiuto al solfato di rame in alte dosi che ricorrere al micidiale metilpa-rathion. Resiste al freddo e al caldo, al secco e all'umido, ma è avara, produce poca uva (60-80 q.li/ettaro). Il mosto fiore è figlio d'arte, forse ha ispirato la canzone popolare: “E se son pallida nei miei colori, non voglio dottori, non voglio dottori, e se son pallida come una trassa, vinassa, vinassa e fiaschi de vin!
Il Raboso è come il vino Cuore dei francesi?

Per rispondere alla domanda dovrei aver a disposizione i dati analitici che invece mi mancano. Tuttavia riconosco ai francesi una straordinaria abilità nel produrre vini tipo Formula 1. Forse favoriti dalla loro legislazione vinicola, sicuramente da una alta tecnologia estrattiva. E mi spiego: J. Masquelier, professore alla facoltà di medicina e farmacia di Bordeaux (Francia) è uno studioso di tannini e in particolare di catechine, composti polifenolici localizzati nelle parti solide dell'acino d'uva: buccia e vinacciolo. Ad esempio le procianidine appartenenti alla famiglia delle catechine, svolgono una attività di Vitamina P.
A detti composti viene tra l'altro riconosciuta un'azione protettrice sull'ulcera gastrica (Masquelier, Pavia 1984); ad un suo dimero, di un interesse medico viene riconosciuta un'azione preventiva sull'attività capillarotossica dell'aspirina; un'azione contro l'ischemia e il trattamento dei fenomeni essudativi. È stato sperimentato con successo su retinopatie diabetiche, trombosi venose della retina...
Orbene, se il vino «cuore» dei francesi è arricchito di simili composti, la bevanda risulterà interessante sotto il profilo salute e in particolare nella prevenzione di disturbi circolatori. Il dato va accertato e l'indagine va condotta su più fronti: dalla provenienza dell'uva, dalla fermentazione pilotata o dall'aggiunta di detti composti ottenuti per separazione, per estrazione. E forse utile ricordare che l'olio «cuore» italiano è olio di mais arricchito di vitamine aggiunte successivamente alla raffinazione dell'olio. L'aggiunta accurata rende l'olio un prodotto dietetico. Forse il lettore pensa che il Ministero, dell'Agricoltura o della Sanità italiana autorizzerebbe analoghi procedimenti, analoghe aggiunte al buon vino italiano? Venti anni fa avevo intenzione di produrre un vino a bassa gradazione alcolica, arricchito nei suoi componenti naturali, ma ho avuto il veto del Ministero. Sono convinto che il Raboso Piave abbia su altri vini di mia conoscenza, una biodisponibilità di tannini fisiologicamente e farmacologicamente interessanti, utili al nostro organismo; ma credo che al momento dobbiamo accontentarci di berlo naturale. Naturale, non arricchito in catechina o suoi derivanti, non impoverito per drastici trattamenti enologici, non appesantito con torchiati e supertorchiati.
Il vecchio adagio trevisano: “Il Raboso giovane è un vino che mette i brividi solo a pensarci, va bevuto in tre, uno per bere e due per sostenere l'amico dopo la scossa ricevuta, o almeno per consolarlo”, si addice ad un Raboso sofisticato, addizionato di torchiato, pompato di anidride solforosa, proveniente da terreni eccessivamente produttivi, in altre parole da Raboso rossissimo. Tale vino è destinato a peggiorare con l'invecchiamento. Il Raboso Piave «nature» è invece agile, fruttato da giovane, sobrio da maturo. Non è vecchio prima di dieci anni e diventa decrepito quando il suo produttore diventa altrettanto decrepito! Vediamoci, amico lettore, in cantina assaggeremo un Raboso 1985 dalla botte, un Raboso 1962 da una bottiglia. Non mancherà un confronto con quello che avrebbe dovuto essere migliore per merito della chimica. Certo la visita di un amico, mi infonderà coraggio, mi darà fiducia.

Ivan Cescon (Libero docente di chimica biologica nell’Università di Milano)


Il Raboso Piave - Un grande sconosciuto

A cura di Elke Schmettow

Negli anni 70 se ne vedeva ancora qualche bottiglia in giro di quel vino rosso cupo, dotato di una spiccata acidità e, pertanto, naturale compagno dei piatti grassi della tradizione culinaria veneta e friulana come il radicchio con i fagioli stufati e conditi con il lardo. Poi è sparito all’improvviso, perché la tendenza verso cibi più leggeri, di impronta “mediterranea”, richiedeva vini adatti alla nuova cucina. L’era moderna del vino ha raggiunto rapidamente anche il nord-est, dove i vitigni internazionali, comunque, erano stati introdotti con successo da almeno un secolo e, grazie ad una vinificazione sempre più attenta, si imponevano progressivamente sui mercati nazionali ed esteri. Fu così che il Raboso, l’unico vitigno autoctono della zone del Piave, in quegli anni è stato spiantato, abbandonato, dimenticato.

A questo punto staremmo forse a lamentare la sua sparizione definitiva se non fosse per un gruppo di viticoltori, formati prevalentemente al prestigioso Istituto Enologico di Conegliano e riuniti nella Confraternita del Raboso Piave con sede a Vazzola, in provincia di Treviso. Un pò per rispetto di un patrimonio locale legato alla memoria dei padri, un pò per l’intuizione delle enormi potenzialità di quel vitigno, hanno deciso di rivedere tutte le fasi di lavorazione di quel vino per adeguarlo al gusto più esigente dei nostri tempi. Impresa non facile se si pensa che una volta certamente meritava il suo nome di “rabbioso” a causa del suo elevato tasso di acidità e di tannini aggressivi. Bisognava, dunque, eliminare l’estrema rusticità e mettere in risalto le doti, innanzitutto la freschezza stratosferica così rara in un rosso italiano, anche dopo la più calda delle estati. Infatti, il Raboso di una volta aveva fama di poter essere bevuto solo in presenza di almeno tre uomini: uno per convincere un altro ad assaggiarlo, il secondo per berlo ed il terzo per tenerlo fermo.

Da allora, molte cose sono cambiate. I viticoltori della Confraternita, grazie ad una sperimentazione seria, svolta in collaborazione con l’Istituto Enologico di Conegliano e con la facoltà di Agraria dell’Università di Padova, stanno riuscendo a portare il Raboso in purezza ad un livello qualitativo mai visto a cui l’imminente conferimento della DOCG non aggiungerà altro che, forse, qualche vantaggio commerciale. Assisteremo, dunque, ad un ritorno trionfale di questo “gigante dormiente”, come lo definisce un critico ottimista?
Incuriositi, abbiamo assaggiato le ultime vendemmie di Raboso Piave prodotte da Giorgio Cecchetto, produttore di punta della zona classica e membro fondatore della Confraternita. Nei 40 ettari di vigneti di sua proprietà e in qualche ettaro in affitto produce uve Raboso solo per il 25%, anche se è il vitigno in cui ha investito di più e che è al centro di continue sperimentazioni. Il primo parametro esplorato è la densità d’impianto dei ceppi (5-6.000/ha), un altro è la forma di allevamento tradizionale da queste parti, con cui si permette alla vite di arrampicarsi sugli alberi di gelso (donde il nome “Gelsaia”) con risultati apparentemente ottimi e, recentemente, l’esposizione delle piante a vari livelli di stress idrico secondo un modello israeliano collaudato in terreni semi-desertici che sembra sia stato sopportato egregiamente dalle uve di Raboso. I primi due vini degustati sono prodotti con metodo tradizionale.

Il primo è un Raboso del Piave DOC 2000 etichetta nera, frutto di un’ottima annata come lo erano anche il ’94 e il ’97, almeno per i vitigni a maturazione tardiva. Nel bicchiere è di un rubino luminoso, con unghia porpora, al naso si avverte la marasca, la mela granata, il pepe e la noce moscata; in sostanza ci sono solo le speziature del legno, assenti quelli della terziarizzazione, mentre al palato percepiamo un frutto integro, acidi e tannini vivissimi, ma non spigolosi, che richiamano piatti grassi e succulenti oltre ad una persistenza di tutto rispetto. I suoi 13,5° di alcol sono ben integrati.

Il secondo vino degustato, sempre un Raboso del Piave DOC etichetta nera, ma vendemmiato nel 1998 e maturato in una bottiglia Magnum, non è mai uscito in commercio. È il vino di una volta, oggi ci sembra quasi scandalosamente rabbioso, non ha fatto la malolattica, bensì qualche mese in legno grande di castagno. Il colore è un rubino vivacissimo, al naso si sente la frutta cruda asprigna tipo marasca e prugna, in bocca si è colpiti da una sferzata di tannicità prima e di un’acidità straordinaria subito dopo. Insomma, il classico Raboso “da brividi”, vino praticamente inossidabile che grazie alle sensazioni prevalentemente dure che dà, anche fra vent’anni sarà integro e pronto ad accompagnare piatti robusti a tendenza dolce come per esempio la carne di cavallo.

I Raboso che portano l’etichetta “Gelsaia” esprimono l’intento di Cecchetto a produrre vini più morbidi ed eleganti, e lo testimonia già il nome che strizza l’occhio ai più celebri fra i Super Tuscans. La decisione di farlo uscire solo nelle grandi annate è buon segno. La verticale degustata comprende il ’94, il ’97, il 2000 e il 2002 (in anteprima) e ci permette di ripercorrere le fasi della sperimentazione compiuta dall’azienda per apprezzare il progresso qualitativo conseguito in quest’ultimo decennio.

Il Gelsaia 1994, grandissima annata, è stato imbottigliato dopo 2 anni in botte grande (tonneau) e in barriques di secondo passaggio. Qui non si era fatto ancora ricorso all’appassimento e non se ne sente la necessità data la grandissima qualità del frutto perfettamente maturo che si aveva a disposizione. Il Raboso si esprime al meglio proprio in annate siccitose come questa, presentandosi in questa veste rubino concentrato, con unghia granata, sentori tipici di frutta rossa in confettura, mallo di noce, cacao, caffè, con perfetta rispondenza gustativa, accompagnata, comunque, dalla nota acida tipica del vitigno. La rotondità dei tannini ben presenti ci suggerisce uno sposalizio con brasati di manzo e cacciagione.

Il 1997 segna una svolta importante: l’introduzione di un primo appassimento di una parte delle uve su graticci e successivamente per circa 2 mesi su dei plateaux collocati in locali ad aerazione controllata, come si fa in Valpolicella per l’Amarone. Durante i primi due giorni, grazie ad un controllo automatico della temperatura e dell’umidità, le uve perdono il 7-10% d’acqua, le bucce si cicatrizzano e non rischiano più di formare muffe. La temperatura ottimale è tra 14-18°C, una temperatura più elevata accelererebbe il processo di appassimento, ma tra le controindicazioni ci sono la perdita di profumi nel vino, sentori di cotto e lo sviluppo di moscerini, muffe e batteri. Il pH naturalmente basso della varietà contrasta la formazione di batteri acetici. Il Gelsaia ’97, quindi, è stato elevato per dodici mesi in rovere di Slavonia, più simile, rispetto al rovere francese, al legno di castagno usato una volta da queste parti per la conservazione del vino. Il colore è di un rubino luminoso, il naso, invitante e complesso, richiama la frutta rossa in confettura, di amarena e ribes soprattutto, ma anche uno speziato dolce di liquirizia, mallo di noce, cacao e cuoio, che si ripresentano puntualmente all’assaggio, rivelando un tannino nobile ed una freschezza equilibrata, con una nota calda, avvolgente di polialcoli ed una grande persistenza. Tuttavia, con i suoi 13,5° questo vino non è certamente né vuole essere un’imitazione di Amarone, ma un vino tipico destinato ad una lunga evoluzione che sarà interessante seguire.

Il Gelsaia 2000 ci dà l’opportunità di fare il confronto con la versione tradizionale prodotta nella stessa annata. L’olfatto netto di marasca dolce indica la gioventù di questo vino, ma emerge già una nota vanigliata dovuta all’affinamento in legno piccolo, al palato c’è già un discreto equilibrio accompagnato da una lunghezza che supera quella del ’97. L’azienda ha raggiunto un traguardo importante con questo vino, anche se i duri e puri preferiranno forse la versione tradizionale, ma ricordiamoci che in annate meno felici di questa avremmo un vino oggi improponibile mentre la lavorazione aggiornata ci regala un prodotto interessante, a dire del produttore, in sette annate su dieci.

Il Gelsaia 2002, assaggiato in anteprima, non poteva che essere ancora squilibrato. La sua commercializzazione è prevista dopo un anno di affinamento in bottiglia. Tuttavia, la predominante freschezza è accompagnata da una bella concentrazione di profumi, con marasca fresca in primo piano, ribes rosso e un ricordo di rose Crimson Glory, fragranze che tornano all’assaggio, dove si percepisce un tannino che comincia appena ad arrotondarsi. È un vino che non teme certo il passare del tempo, esprimendo il suo carattere al meglio forse tra 8-10 anni. La vendemmia è stata eseguita in tre fasi per raccogliere solo le uve a maturazione ottimale. L’estate particolarmente piovosa aveva lasciato fino a tutto agosto la maggior parte delle uve ancora verdi, ma sono poi maturate rapidamente per le condizioni da serra, con cielo semicoperto e temperature elevate, sopportate bene dal Raboso grazie alla sua buccia spessa.

In conclusione, possiamo dire di aver incontrato una realtà di sicuro interesse che andrà seguita con spirito critico ma anche con apprezzamento per il percorso coraggioso intrapreso.

La Guida Veronelli 2004 segnala:

Az. Agr. Cecchetto Giorgio
Località Tezze di Piave
31020 Vazzola (TV)
Tel. 0438. 28598
info@rabosopiave.com

Piave Raboso 1999 Fiore 86/100
Piave Raboso Gelsaia 2000 Fiore 89/100


Inoltre, sempre la Guida Veronelli 2004, segnala:

Piave Raboso La Potestà 1999 di Bonotto delle Tezze Fiore 85/100
Piave Raboso 1998 di Ornella Molon ** 88/100

Articolo per: www.simpatico-melograno.it (produttori di vino)








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