Gianluigi Morini del San Domenico onorato a Imola

L’Accademia della Cucina Italiana di Imola onora Gianluigi Morini

 Il 22 Novembre dello scorso anno a Imola si è tenuto un incontro voluto dall’Accademia della Cucina Italiana di Imola per intervistare e onorare Gianluigi Morini, patron del San Domenico di Imola, a pochi mesi dai 50 anni dell’apertura del celebre ristorante che avrà il suo epilogo il 7 Marzo 2020. 50 anni e 43 anni con due stelle Michelin. Una serata con in due ore si sono succeduti al microfono personaggi illustri di Imola e altri personaggi che hanno fatto la storia del San Domenico, con in primis il prof. Massimo Montanari, lui stesso cittadino di Imola. Difficile raccontare quanto si è riusciti a fare raccontare a Morini della sua creatura, con ricordi, aneddoti, incontri con personaggi di tutto il mondo e dei suoi allievi Valentino e Natale Marcattillii. Impossibile raccontare quanto di bello e di buono si è raccontato ma seguendo un filo diretto possiamo trarre spunti interessanti sui 50 anni del patron del San Domenico, Gianluigi Morini, 84 anni ben portati con una memoria incredibile di quanto ha fatto per Lui, per Valentino e Natale e per tutta Imola, ma anche per tutta la ristorazione di eleganza, classe e signorilità.

La storia inizia il 7 marzo 1970: Gianluigi Morini – dopo aver convinto Nino Bergese, chef delle più nobili famiglie italiane, ad assumere il controllo della cucina apre il Ristorante San Domenico a Imola e iniziò ad esplorare la cucina italiana di quel tempo: la cucina dei grandi case aristocratiche. Solo 10 anni dopo, nel 1980 dopo un notevole apprezzamento da parte del pubblico e della critica (aveva già le due stelle Michelin), il San Domenico viene invitato nella “Rainbow Room” del Rockefeller Center di New York tramite Tony May, per presentare una settimana di cucina italiana. Il 18 giugno 1988: le porte del San Domenico a New York si aprono al Central Park South, guadagnando subito tre stelle dal New York Times. Nel 1989, 30 anni fa, il ristorante riceve l’ambito premio “Migliore cena dell’anno” dal noto mensile “Esquire”.

Oggi mancano solo 3 mesi per arrivare al fatidico 7 Marzo del 2020 per festeggiare il cinquantenario, e troviamo ancora lo stesso staff: Gianluigi Morini, impeccabile e discreto, che da alcuni anni si è messo da parte lasciando le responsabilità ai fratelli Valentino e Natale Marcattilii, ora comproprietari, che dirigono la cucina e sala da pranzo la solita classe e cordialità in un ristorante che è rimasto in prima linea nella cucina raffinata italiana. Si sono aggiunti altri familiari: Massimiliano, nipote di Valentino e Natale e Giacomo, figlio di Natale e di Barbara (quest’ultima si occupa di amministrazione). In sala troviamo un bravissimo Sommelier Francesco Cioria, 31 anni, con alle spalle una carriera di successo.

Signor Morini, se si guarda indietro cosa le viene in mente che le è più caro?

La cosa assolutamente più importante, il ricordo che rimane più chiaro è l’umanità che aveva Nino Bergese e la sua straordinaria volontà di condividere le sue conoscenze. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere un grande Maestro e ci siamo sempre sentiti obbligati a trasmettere ciò che ci ha insegnato. Infatti, la nostra casa ha formato un gran numero di giovani entusiasti che ora sono sparsi in tutto il mondo nei ristoranti italiani. Direi che abbiamo avuto una piccola mano nell’elevare il livello della cucina italiana all’estero.

Oggi, negli Stati Uniti, la cucina italiana è molto richiesta. Grazie a persone come Lei, come Marchesi, Cipriani e altri che hanno permesso alla nostra cucina di progredire all’estero. Cosa ne pensa?

Negli Stati Uniti, la cucina italiana è molto richiesta perché è una cucina più leggera, basata su prodotti mediterranei di stagione. La crescita della professionalità nei ristoranti “tricolori” è stata assicurata da quei giovani che – con il loro grande impegno per l’apprendimento – sono diventati ambasciatori delle nostre tradizioni.

A quell’epoca Lei lavorava alla Cassa di Risparmio a Imola; come ha potuto decidere di intraprendere una simile avventura? È vero che è  stato fortemente influenzato dai festival cinematografici a Cannes e Venezia?

Sin da quando ero un ragazzo sono stato affascinato dal cinema e dal teatro e ho adorato frequentare i festival di Cannes e Venezia. Questo è stato il mio primo contatto con i sontuosi ricevimenti nelle case private e nelle riunioni pubbliche e sono stato incoraggiato ad aprire la mia casa agli ospiti. All’inizio era un hobby, ma poi ho deciso di farlo diventare il mio lavoro e ho creato il ristorante. Quando ho preso la decisione, mi sono reso conto che non potevo prendere il posto dello chef in cucina da solo e che avevo bisogno di veri professionisti: il primo fu Nino Bergese, ma quanta fatica per poterlo avere con noi a Imola; poi quando abbiamo deciso di iniziare a fare il nostro pane, è venuto da Cantù un vulcanico personaggio, Rocco Lettieri che ci ha insegnato l’arte di panificazione, con tutti i criteri e le attrezzature necessarie. Abbiamo acquistato un forno da pane dalla Moretti (cosa da pazzi per quei tempi – eravamo nel 1978) e la stessa cosa è stata fatta a New York quando abbiamo aperto il SD con Tony May nel 1988. Rocco è venuto ed ha panificato e fatto pizze per grandi personaggi quali il governatore Mario Cuomo, Antony Quenn e famiglia, Bill Cosby, Tony Randall, unitamente al Sommelier Giorgio Lingero e allo chef capo Paul Bartolotta. Per i dolci abbiamo chiamato Pascal Piermattei, che era stato assistente pasticciere di Roger Vergé al Moulin di Mougin in Francia, e abbiamo iniziato a proporre un diverso concetto di pasticceria applicando le tradizioni della pasticceria italiana a questo nuovo modo di creare dessert .

 

E l’incredibile passione per il vino com’è nata?

Da bambino camminavo in campagna con mio padre, attraverso le sue terre e le sue vigne, e mi insegnava come si curava la vigna e come potare le viti. Il tempo del raccolto è stato affascinante, con il mosto che bolliva nei tini, la decantazione e tutto il resto. Forse ho avuto in queste “fragranze” il piacere di bere vini solo di qualità.

 

La storia delle famose cantine del San Domenico è nota forse a pochi. Possiamo ricordare qualche passo importante?

Non volevo dipendere solo dalle mie conoscenze personali per quanto riguarda i vini. Ho fatto ricerche, comprato libri e sono andato a vedere cosa stava succedendo nelle zone di produzione reali. Rimasi stupito, a metà degli anni ‘60, quando andai in Francia e realizzai la sua diversità dall’Italia: il culto dei vini pregiati era forte nei produttori, ma ancora di più nei consumatori. E così ho iniziato a comprare vini francesi. Ho avuto la fortuna di possedere queste enormi cantine che facevano parte del Convento di San Domenico, dove vivevamo durante la guerra. Ho iniziato a ristrutturarli in parte e a raccogliere un numero di vini in Italia e all’estero che le mie fonti mi hanno detto che sarebbero invecchiate bene in condizioni climatiche ideali. Molto ho avuto dai fratelli Brovelli di Milano, almeno per la parte dei vini francesi. Ma mi sono cimentato con altri personaggi che hanno costruito l’Italia del vino: Veronelli (che da noi era di casa), Giorgio Grai, Antonino Trimboli, Adriano Romanò, e i vari sommelier che l’Italia ha avuto la fortuna di creare nel tempo. Ora abbiamo un bravo e giovane sommelier  Francesco Cioria, che è ritornato da noi nel 2014. Un vero professionista che è stato anche insignito del titolo di «Ambasciatore dello champagne», dal Comité Champagne. Una persona che mi fa bere bene suggerendomi vini nuovi che io non ho potuto seguire in questi ultimi anni.

Credo che molti personaggi famosi siano passati dal San Domenico. Potrebbe parlarci di qualcuno che aveva una grande visione del mondo del vino e del cibo?

Senza dubbio, l’attore italiano Ugo Tognazzi. Un palato unico. Riusciva a identificare gli ingredienti di qualunque cosa gli fosse servita sulla base della fragranza e del gusto, con precisione invidiabile. Inoltre, amava cucinare: ogni tanto trascorreva del tempo in cucina accanto a Valentino, che lo trattava come se fosse suo figlio, perché amava imparare tutti i trucchi del mestiere. Per tutti noi, è stato meraviglioso conoscerlo.

Quali sono le principali esigenze dei clienti di un ottimo ristorante italiano?

I nostri clienti vogliono soprattutto godersi il loro pasto. Devono essere necessariamente seguiti dal momento in cui entrano, per tutto il tempo in cui sono al ristorante, con attenzione e affidabilità, senza mai diventare invadenti o interferenti. Qui Natale è insuperabile. I clienti devono sentirsi completamente a casa e li accogliamo come ospiti. La cosa più importante è che si sentano perfettamente a loro agio. Un ospite che si sente come un estraneo non tornerà mai più.

 

Ci parli di Valentino. Come ha potuto mandarlo così giovane in locali quali i fratelli Haeberlin all’Auberge del’Ill, con Troisgros a Roanne, con Roger Vergé al Moulin de Mougins, da Guy Thivard e Madame Point a La Pyramide. Che cosa hai imparato da questi pellegrinaggi?

Dopo sette anni di esperienze con Nino Bergese e su suo consiglio ho deciso che fosse giusto far fare esperienza nei grandi ristoranti francesi. Devo dire che per Valentino è stato un passaggio fondamentale. E Valentino ha dovuto parlare anche nella loro lingua. Nei ristoranti francesi ha potuto capire l’organizzazione, la divisione in squadre, dove tutti erano seriamente responsabili dello svolgimento di determinati compiti. Bergese era un luminare; i francesi gli hanno dato l’opportunità di capire cosa stava cambiando nella cultura della cucina europea.

Chi si avvicina al San Domenico cosa si aspetta di trovare?

Come in tutti i ristoranti del nord Italia, la tradizione richiede una serie di proposte basate sulla pasta fresca fatta in casa. È una questione di storia ed economia. Al San Domenico facciamo molte paste ripiene: tortelli, tortelloni, tortellini, tagliatelle; molta pasta all’uovo fatta sempre da noi, naturalmente. E a tutti proponiamo il nostro “Uovo in Raviolo San Domenico con burro di malga, parmigiano dolce e tartufo di stagione” perché è il piatto che serviamo tutto l’anno. Ci sono persone che vengono da ogni parte del mondo per questo piatto, come succede per alcuni piatti importanti di molti ristoranti francesi.

Un’ultima domanda: un pensiero su Valentino e su Natale, i fedeli collaboratori di quasi 50 anni fa.

Valentino e Natale sono come figli per me. Ho avuto la fortuna di incontrare questi due ragazzi che credevano in me e insieme abbiamo realizzato un sogno che non sarebbe mai potuto accadere senza di loro. Sono molto affezionato a loro e spero di poter continuare a condividere il loro successo per molti anni ancora. Vorrei tuttavia concludere con un messaggio per le nuove generazioni, a quei giovani che continueranno il nostro lavoro in futuro: in poche parole, riassumendo la storia del San Domenico, potremmo dire che si tratta di una sfida impegnativa e con un lavoro laborioso, che richiede talento e dedizione, ma non è una professione che dovrebbe essere evitata perché richiede sacrifici. Perché dico questo? Perché, a differenza di altri, questo è un lavoro che ci consente di offrire ai nostri ospiti “un paio d’ore di felicità”.

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 Ora, cercherò di raccontare la “leggenda” del San Domenico come l’ho vista e vissuta anch’io nei miei quaranta anni di dedizione ad un Ristorante unico ed esclusivo. Mi soffermerò su alcuni significative presenze alle quali ho potuto partecipare.

Il cibo, il pane, i sapori e i vini della tavola al  San Domenico di Imola

 

Per onorare la memoria di Nino Bergese, il 14 dicembre 1998, quella stupenda bomboniera che è il Teatro Comunale Ebe Stignani era affollata  all’inverosimile. La gente si accalcava all’esterno nel tentativo, per altro inutile, di trovare un pertugio per entrare. Per Imola era una serata importante, uno di quei giorni che rimangono nel cuore di tutti. Sembrerebbe esagerato parlare in questi toni della festa di un ristorante e del suo “nume tutelare” ma il San Domenico con Gianluigi Morini, Valentino e Natale Marcattilii e con tutti i collaboratori rappresentano un bene “molto speciale” per la città romagnola. Affermava, infatti, il sindaco di allora, Raffaello De Brasi, che è un patrimonio culturale che ha fatto conoscere Imola in tutto il mondo, ora più che mai essendo Imola inserita in quell’importante circuito delle Città del Vino. Ebbene, in questa suggestiva cornice, con tanti imolesi intorno e giornalisti di ogni dove, fu presentato il libro “ Il San Domenico di Imola. Estetica del cibo, le cantine, i sapori della tavola ” voluto fortemente dalla Cassa di Risparmio di Imola e dal suo presidente Paolo Casadio Pirazzoli che da sempre ha cercato di favorire lo sviluppo economico e sociale del suo territorio. E’ stato curato dalla brava Miria Mazzetti e scritto da tre indiscusse, nei rispettivi ambiti, personalità, che illustrano con garbo e professionalità le atmosfere che si vivono in questo tempio della ristorazione italiana.

 

Vittorio Sgarbi ha trattato i temi dell’arte come iconografia dei sapori e dei colori della tavola suggerendo appropriati riferimenti confrontando alcune delle più importanti opere della storia con il cibo. Marco Guarnaschelli Gotti ha percorso le tappe dell’evoluzione della gastronomia italiana passando dalla nouvelle cuisine a oggi. Luigi Veronelli ha ispezionato e catalogato con la cura e la consueta acutezza e competenza i vini della famosa cantina del San Domenico che si snoda nell’ex convento per circa mille metri quadrati. Infine, l’arte culinaria è resa viva e attuale attraverso le ricette di Valentino, restituite nella loro piena dimensione artistica dalla fotografia di Gianni Renna, collaboratore di Grand Gourmet.

Per la verità dobbiamo riferire che già in altra occasione, ben quindici anni fa, la sera di mercoledì 29 settembre 1982, si ebbe ancora un momento così magico per Imola. Veniva infatti presentato il libro scritto da Morini e dedicato al suo ristorante: “A tavola al San Domenico”, Rizzoli Editore, alla presenza del grande attore e gastronomo Ugo Tognazzi. Il libro racconta la storia di Gianluigi, della sua passione per la ristorazione, lui che scelse a malincuore la carriera bancaria per rispettare la volontà del padre. La prefazione era di Carlo Bo ed era racchiusa sotto un titolo “Imola e Parigi” volendo significare la sfida di Morini, fondata sullo stadio di un continuo confronto fra il suo ristorante e Imola da una parte e la capitale francese dell’altra. Morini, perfezionista maniacale, racconta della sua casa e fa anche una breve storia della cucina europea, muovendo da Marie-Antoine Careme passando per Auguste Escoffier e Fernand Point, e giungendo sino a Bocuse. Infine approda a Nino Bergese, il re dei cuochi, il cuoco dei Re, al quale dichiara sconfinati sentimenti di gratitudine e ammirazione. Sempre in quel primo volume troviamo cento ricette di Valentino, definite facili, senza artifizi o segreti nascosti. “Io credo – disse Valentino alla presentazione – di avercela messa tutta, che più chiaro di così non potevo proprio essere. Forse non è facile trovare alcuni ingredienti, ma di certo vale la pena di cercarli”.

Ricordo che quella particolare sera agli ospiti fu offerto: Pasticcio di fegato in terrina, Uovo in camicia con tartufi d’Alba, Branzino in foglie di lattuga, Sorbetto di pompelmo al pepe bianco, Sella di vitello alla Nino Bergese e dalla “bunker/cantina” furono serviti due Château Lafitte Rotschild Pauillac, in Imperiale, vendemmia 1971, appositamente recuperati dai vinai in Milano, Alberto e Giberto Brovelli. Una cena memorabile in un ristorante perfetto, dove tutto è ancora oggi, giustamente calibrato.

In questa giornata del 14 dicembre 1998, per la presentazione del libro, erano presenti gli autori con in più quell’on. Vittorio Sgarbi che ha incantato il pubblico con un’ora e dieci minuti di dialettica eno-gastro-culturale come solo lui può permettersi. Sgarbi ha dato un saggio della sua arte oratoria celebrando il San Domenico come un’opera d’arte, raccontando le sue importanti sedute in quel del San Domenico, fondamentale presidio di cultura romagnola, a lui molto caro, in quanto sua madre era di Santa Maria Codifiume di Argenta, quindi romagnola, con padre veneto (una mistura che non mi è particolarmente piaciuta – parole sue -) e lui nativo di Ferrara, quindi romagnolo. Il suo racconto per la prima  presentazione ufficiale del libro, si dilunga sulla sua prima volta al San Domenico quando si rese conto di non trovarsi in un  comune ristorante, una trattoria, dove uno può mettersi comodo, nò, bisognava stare composto, stare attenti a come si appoggiavano le posate, come fare a girare il bicchiere del vino che ti veniva porto da un gentiluomo in abito scuro, insomma composto come quando si va in chiesa. Da qui i primi sacrifici per il piacere di accomodarsi ai tavoli del San Domenico dove non puoi andare vestito male, sudato o di cattivo umore, perché al San Domenico si va predisposti da almeno una settimana e convinti di stare seduti per diverse ore con un rituale di lentezza adatto alla conversazione gastronomica spiluccando panini e grissini fantasiosi come in nessun altro luogo al mondo. In effetti il pane al San Domenico si fa due volte al giorno e credo sia l’unico ristorante a potersi permettere il lusso di un vero forno da pane con tanto di umidificatore e con una persona che si destreggia magnificamente tra impastatrice, spezzettatrice, e formatrice. Sì perché al San Domenico i macchinari ci sono proprio tutti.

Un bel sentire quello di Sgarbi che ha tradotto la gastronomia in un sapere filosofico citando Feuerbach (L’uomo è ciò che mangia) o Oldenburg, con la sua “Pop Art”, o citando la musica di sottofondo del Buscaroli, sottolineando l’opulenza dei banchetti di Caravaggio e Van Gogh e le tavole di Cezanne fino alle nature morte di Morandi. Sentire ancora che Nuvoletti è il filosofo del matrimonio del buon vivere e che Agnelli rappresenta lo stile assoluto in Italia come assoluto lo era Nino Bergese in cucina. E ancora un applauso scrosciante è venuto dai presenti quando Sgarbi, pardon Vittorio, come ha voluto definirsi quella sera, ha definito papa della cucina il Morini. Sì perché essere al San Domenico è come essere a messa, una celebrazione che si tiene tutti i giorni (salvo i giorni di chiusura del locale) con tanto di sacerdoti (i cuochi) e di cardinali (i mâitre) e Morini che come un papa tiene tutti sotto controllo. Applausi a scena aperta comunque per tutti, autori e attori, con in primis Valentino e Natale Marcattilii ai quali si è unito Paul Bartolotta, grande amico e allievo di Valentino, appositamente venuto da Chicago, dove ora lavora al ristorante Spiaggia della catena Levy Restaurant, che collaborò per ben sette anni a Imola e che con Valentino fece l’inaugurazione nel 1988 del San Domenico di New York di Tony May che venne appositamente a Imola per essere vicino a Morini per la presentazione di questo libro.

Qui a Imola, al Teatro, grazie sempre alla Cassa di Risparmio, è stato offerto a tutti un grande buffet preparato dagli chefs del San Domenico. I più fortunati tra i numerosi presenti all’incontro, persone comunque legate da lavoro alla ristorazione, avevamo ricevuto l’invito per continuare i festeggiamenti al San Domenico, nella sua veste nuova, con la nuova entrata e con i nuovi servizi come si addice ad un locale di prestigio e di gran classe già in clima natalizio con alberi addobbati per il Natale. Aperitivo servito nelle stupende cantine appositamente disposte per ricevere personalità importanti.

Partenza con flûte di Spumante Brut Frescobaldi 1993 abbinato a frivolité quali ad esempio Lumachine in tempura, Alette di pollo impanate e fritte, Salame piccante in pasta sfoglia, Olive all’ascolana, Piccoli toast alla fontina e Culatello di Zibello di quel grande personaggio che è Massimo Spigaroli, titolare del famoso ristorante Cavallino Bianco di Polesine Parmense. Un cruda e dolce realtà che si scioglieva in bocca. Il menu, servito per 80 ospiti, si può solo raccontare senza alcun commento: Cestini di pane fantasia con Scaloppa di fegato d’oca in salsa di Château d’Yquem sposata ad uno Château d’Yquem, in Imperiale, 1987, di Alexandre de Lur-Saluces. Uovo in raviolo con tartufi bianchi d’Alba con Müller Thurgau Palai 1996 di Pojer e Sandri. Trancio di branzino in brodo di cappone con coriandoli di verdure con Chardonnay Zaraosti 1996 di Andrea e Roberto Zeni. Piccione arrostito al tartufo nero di Norcia con funghi allo scalogno abbinato ad uno Château Mouton Rothschild, in Imperiale, 1987, di Philippine de Rothschild.

Pre dessert con Piccola pasticceria super mignon e Crema cotta alla lavanda caramellata con zucchero di canna. Dessert: Crespella farcita alle mele con cono al torroncino (semplicemente stupendo piatto!) con Moscato d’Asti La Caudrina, in Magnum, 1997 di Redento Dogliotti. Cioccolatini del San Domenico e Caffé.

Scusate se a qualcuno è venuto l’acquolina in bocca. Tutto questo anche per i 20 anni dalla scomparsa di Nino Bergese che a molti questa festa ha fatto persin piangere dalla commozione…..                                                       

A cura di Rocco Lettieri   

Le foto sono state scattate la sera della manifestazione a Imola